Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.Risarcimento per fatto illecito. [I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.] 12.
[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209. [2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. InquadramentoIl dolo e la colpa costituiscono gli elementi soggettivi dell'illecito civile. L'evoluzione della nozione di colpevolezza quale elemento soggettivo del fatto illecito è legata allo sviluppo concettuale della stessa nozione di responsabilità civile. Secondo la teoria tradizionale, nota come concezione etica (De Cupis, 115; Cian, 391; Chironi, 35), la responsabilità è la sanzione che colpisce la trasgressione volontaria e consapevole di un comando, che è al tempo stesso giuridico e morale, e la colpa e il dolo, quali modi in cui si manifesta la volontà del soggetto, sono elementi indefettibili dell'illecito e costituiscono il fondamento della funzione sanzionatoria della responsabilità in ossequio al principio jheringhiano «nessuna responsabilità senza colpa» (Von Jhering, 155). In quest'ottica tanto la colpa quanto il dolo sono un «quid soggettivo, e più precisamente un modo di essere psicologico» (De Cupis, 139). Entrambi gli elementi sono accomunati dalla volontarietà del fatto produttivo del danno, ma nel dolo a tale volontarietà si aggiunge la volontà del danno, mentre nella colpa in senso stretto manca l'impiego, da parte dell'agente, delle facoltà mentali che avrebbero consentito di prevedere il danno ovvero dell'energia volitiva che lo avrebbe evitato. Tanto il dolo quanto la colpa costituiscono, per la teoria in esame, qualificazioni psicologiche dello stesso danno e non solo della sua causa, coincidente con il fatto da cui origina.. Verso la fine del 1800, in concomitanza con le trasformazioni economico-sociali portate dallo sviluppo industriale, la concezione della responsabilità per colpa, fatta propria dall'ideologia liberale borghese, è stata sottoposta a critica da parte dei sostenitori della teoria c.d. tecnicistica. Tale impostazione teorica intravede nella responsabilità extracontrattuale una tecnica di allocazione dei danni e, quindi, uno strumento di riequilibrio patrimoniale, disconosce all'elemento soggettivo il ruolo di perno del sistema della responsabilità civile e propone una nozione oggettiva di illecito quale fatto antigiuridico. All'interno di tale orientamento è possibile enucleare tre autonome posizioni. Secondo la teoria dei costi-benefici (Calabresi) la colpa non assume alcuna rilevanza nel sistema della responsabilità civile. L'assunto fondamentale di tale impostazione è quello per cui la funzione della responsabilità è essenzialmente riparatoria ed è intesa a ridurre i costi che i sinistri, e, con specifico riguardo alla responsabilità da circolazione stradale, gli incidenti stradali comportano per la società. Alla concezione tradizionale si cotrappone anche la teoria oggettivistica, secondo la quale la colpa è uno dei criteri di imputazione del danno, di carattere residuale ed estraneo alla nozione di antigiuridicità del fatto (Scognamiglio). Secondo la teoria eclettica (Trimarchi), nel sistema della responsabilità civile coesistono due diversi criteri di imputazione, la colpa e la responsabilità oggettiva, i quali si pongono in rapporto non di gerarchia, ma di parità. I due principi-cardine su cui si fonda la responsabilità civile sono, in particolare, la colpa e il rischio di impresa. Tale ultima impostazione distingue nell'ambito dell'attività umana le «attività biologiche», in cui prevale il carattere della necessità e della non economicità e la colpa costituisce criterio di imputazione sufficiente, e le «attività economiche organizzate», in cui opera il criterio del rischio in forza del quale chi esercita un'attività lecita deve sopportarne le conseguenze dannose che ricadono sul patrimonio altrui. Secondo altra dottrina (Rodotà, 175), dall'osservazione del sistema codicistico si desume che la colpa costituisce uno dei criteri di imputazione della responsabilità, ma non l'unico ed esclusivo, posto che l'individuo non compie soltanto azioni isolate, ma pone in essere anche attività in forma organizzata, in relazione alle quali non è possibile far riferimento al criterio della colpa per un duplice ordine di ragioni. Non sempre può, infatti, scindersi il singolo comportamento dannoso dall'intera attività in ragione della quale esso è stato posto in essere. Inoltre potrebbe in concreto mancare un comportamento da qualificare, essendo, questo, l'ambito in cui ordinariamente si verificano i danni c.d. anonimi. In giurisprudenza sin dagli anni ‘60 si è assistito ad una ridefinizione della nozione colpa intesa ad una più ampia tutela delle esigenze di protezione dell'individuo. Nella maggior parte delle decisioni la Corte di Cassazione, pur nel rispetto delle istanze soggettivistiche ritraibili dalla relazione al codice civile, ha, infatti, elaborato una nozione oggettiva di colpa ancorata al modello comportamentale del buon padre di famiglia, secondo la quale il comportamento colposo è quello che si pone in contrasto con norme positive e di comune prudenza (Cass. S.U., n. 351/1964; Cass. III, n. 2488/1979, secondo cui «in tema di responsabilità per illecito, per l'affermazione dell'an debeatur va accertata la sussistenza della colpa, la quale, in senso tecnico giuridico, consiste in un comportamento cosciente dello agente che, senza volontà di arrecare danno ad altri, sia causa di un evento lesivo per negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di regole o norme di condotta; mentre la prevedibilità o imprevedibilità del danno rileva solo riguardo al quantum debeatur, poiché in materia contrattuale e risarcibile solo il danno prevedibile (art. 1225 c.c.), mentre in materia extracontrattuale va risarcito anche il danno imprevedibile, dato che l'art 2056 c.c., sulla determinazione del risarcimento in tale campo, non richiama l'art 1225 c.c.»; Cass. n. 1656/1981, secondo cui «Poiché, in tema di responsabilità per atto illecito, la colpa consiste in un comportamento cosciente dell'agente che, senza volontà di arrecare danno ad altri, sia causa di un evento lesivo per negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero inosservanza di regole o norme di condotta, essa è da ravvisare — sotto il profilo della imprudenza — ogni qualvolta manchi la rappresentazione da parte dell'agente secondo il criterio della media diligenza ed attenzione (del cosiddetto bonus pater familias), della possibilità dell'evento dannoso, poi in concreto verificatosi»; Cass. S.U., n. 8297/1997; Cass. n. 21389/2009). Il doloLa dottrina civilistica mutua la nozione del dolo quale elemento costitutivo dell'illecito aquiliano dal diritto penale, definendo tale elemento soggettivo come la coscienza e volontà del fatto, del danno e dell'ingiustizia che lo connota. Il dolo quale elemento soggettivo dell'illecito – che va distinto dal dolo vizio che costituisce ad un tempo vizio della volontà e specifica ipotesi di illecito aquiliano (raggiro) — non trova una definizione nel codice civile, così che la maggior parte degli interpreti, sul presupposto condiviso dell'unitarietà della nozione nel diritto civile e penale, propongono di attingere da tale ultimo sistema elementi utili alla sua ricostruzione. Secondo l'art. 43 c.p. il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione o dell'omissione da cui la legge fa dipendere l'esistenza del diritto è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione. Circa la natura del dolo si sono succedute, in ambito penalistico, tre teorie: dell'intenzione, della rappresentazione, della volontà. Secondo la prima impostazione il dolo è tensione della volontà verso un risultato, e, in particolare, volontà diretta a cagionare l'evento come fine ultimo o come mezzo per conseguire un fine ultimo. Per la teoria della rappresentazione, il dolo consiste nella volontà della condotta e previsione dell'evento, mentre, secondo la teoria della volontà, intenzionale o accettante, nella volizione anche dell'evento. A seconda dell'intensità dell'elemento volitivo, il dolo viene definito generico o specifico, laddove il primo consiste nella rappresentazione e volontà di causare l'evento con la propria condotta a prescindere dal motivo specifico che ha portato l'agente a compiere l'azione o l'omissione, mentre nel dolo specifico assume rilevanza il motivo o movente, che coincide con la causa particolare dell'azione o dell'omissione. Il dolo può essere, poi, alternativo, quando l'agente si rappresenta due o più eventi come possibili conseguenze del fatto, tutti volendoli indifferentemente e nella consapevolezza che uno di essi si verificherà; può essere d'impeto o di proposito a seconda del lasso di tempo, più o meno significativo, intercorrente tra la configurazione e la concretizzazione dell'evento. L'intensità del dolo rileva anche in relazione alla distinzione tra dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale. Nella prima e più grave forma di dolo l'evento costituisce il precipuo fine dell'agente, nella seconda il soggetto prevede che l'evento si verificherà, ma non come evento principale, ma collaterale ed accessorio. Il dolo eventuale si caratterizza, invece, per il fatto che l'agente prevede l'evento come possibile conseguenza della propria condotta senza volerlo come evento primario, ma accettando il rischio della sua verificazione. Tale elemento soggettivo si distingue dalla colpa c.d. con previsione, in cui il soggetto prevede l'evento come conseguenza possibile della propria condotta, ma confida nelle propria abilità e attitudine ad evitarlo. Con specifico riferimento all'elemento intellettivo, una parte della dottrina ha evidenziato come si impieghi il termine rappresentazione per indicare il momento ideativo del dolo e il termine previsione per individuare l'omologo profilo intellettivo nella colpa. La rappresentazione consiste in un fenomeno immaginativo, costruttivo di un possibile avvenimento. Dalla rappresentazione deriva un giudizio di possibile derivazione causale dell'avvenimento dalla condotta dell'agente. E la previsione si sostanzia proprio in detto giudizio. La rappresentazione è, dunque, un giudizio che ha ad oggetto lo sviluppo possibile di un processo causale. La previsione è qualcosa in più, ovvero un giudizio di possibilità, di probabilità o di certezza su di una derivazione causale rapportata ad una particolare azione. L'intenzione aggiunge alla rappresentazione l'attivazione della condotta che trasforma la possibilità in realtà. Negli illeciti dolosi concorrono rappresentazione, previsione ed intenzione, ma la previsione non rileva in quanto è assorbita dall'intenzione, mentre la rappresentazione è elemento comune al dolo e alla colpa, ma nella forma della colpa con previsione. La colpa si ravvisa, infatti, allorché l'agente si configura un evento che non soltanto non vuole cagionare, ma crede che non si debba necessariamente cagionare: l'evento è, al più, ritenuto possibile o probabile dall'agente e in tal caso si versa nell'ipotesi di colpa con previsione. Ma, laddove il soggetto preveda come certo l'evento, non si versa più nella colpa, ma nel dolo, posto che la certezza dell'evento equivale alla volontà di produrlo. Tali precisazioni, elaborate dalla dottrina penalistica, assumono rilevanza anche nell'ambito della responsabilità civile, in cui la distinzione tra l'imputazione dell'illecito a titolo di dolo o colpa incidere sull'an e, secondo una parte della dottrina (Monateri, Arnone, Calcagno, 3) sul quantum della tutela risarcitoria. La maggior parte degli autori (Scognamiglio, in Nss. Dig. It., 336; Cendon, 13-14) ha a lungo sostenuto l'equivalenza dei due elementi soggettivi ai fini della configurazione della responsabilità aquiliana, facendo leva sul tenore letterale dell'art. 2043 c.c. il quale sembra equiparare i due elementi soggettivi ai fini dell'integrazione della responsabilità civile, e sulla previsione dell'art. 2056 c.c. che, nel regolamentare il danno da illecito extracontrattuale attraverso il rinvio alla disciplina del danno contrattuale, non richiama l'art. 1225 c.c., a mente del quale la risarcibilità dei danni non prevedibili è condizionata alla ricorrenza del dolo. Tale impostazione è stata, tuttavia, superata da una parte della dottrina (Salvi, 159; Bianca, 576), la quale ha evidenziato l'inadeguatezza della tradizionale equiparazione tra dolo e colpa, sostenendo l'autonoma rilevanza del primo. Si è, in particolare, rilevato che nell'ordinamento vi sono fattispecie, come gli atti emulativi ex art. 844 c.c., il dolo incidente ex art. 1439 c.c., la responsabilità del giudice (art. 2 l. 13 aprile 1988, n. 117), la responsabilità degli insegnanti ex art. 61 l. n. 312/1980, del cancelliere e dell'ufficiale giudiziario (art. 60 c.p.c.), del consulente tecnico d'ufficio (art. 64 c.p.c.) l'induzione all'inadempimento e il contratto in frode di terzi, in cui la responsabilità sussiste solo in caso di dolo (Bianca, 577) ovvero di dolo o colpa grave. Anche la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che i concetti di dolo e di colpa sono ontologicamente eterogenei, essendo il dolo un atteggiamento psicologico intenzionalmente diretto alla lesione dell'altrui diritto, e la colpa, viceversa, vicenda soggettiva caratterizzata dalla non volontarietà del fatto dannoso. A tale, strutturale disomogeneità dei due possibili aspetti morfologici dell'elemento soggettivo dell'illecito non può che conseguire l'eccezionalità (e, dunque, la necessità di una espressa previsione, normativa o convenzionale) della relativa equiparazione tout court, sulla base di non meglio identificati «principi generali» del diritto civile: tale eccezionalità (e la conseguente non estensibilità in via analogica dell'antico brocardo culpa lata dolo aequiparatur) risulta, per converso, il «principio generale» legittimamente predicabile, di tal che la reductio ad unum di tali eterogenee categorie normative è consentita solo allorché (e sempre che) la norma, di legge o di contratto, esplicitamente lo consenta (Cass. n. 5449/2006). Quanto ai rapporti tra processo civile e processo penale, si è rilevato che Ove l'azione civile sia stata esercitata in un processo penale per una fattispecie criminosa qualificata da dolo intenzionale, nel giudizio civile di rinvio ai sensi dell'art. 622 c.p.p., in relazione alla responsabilità ex art. 2043 c.c., il giudice deve verificare la ricorrenza, sul piano oggettivo e soggettivo, di tutti gli elementi dell'illecito civile, sicché - quando il reato contestato risulti quello previsto dall'art. 323 c.p. (come nella fattispecie) - occorre avere riguardo non all'intenzionalità del comportamento dell'asserito responsabile, bensì alla generica dolosità della condotta (Cass. n. 457/2021, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione della Corte territoriale che aveva escluso la sussistenza del dolo del danneggiante - un magistrato, già imputato per aver favorito un altro consulente attraverso la liquidazione di un compenso non dovuto e per avere pregiudicato il danneggiato con la revoca della curatela fallimentare conferitagli - in ragione della mancata prova di una sua intenzionale volontà, anziché limitarsi a verificare la volontarietà delle predette condotte). La colpa nel codice civile. I rapporti con la colpa penaleNel codice civile non si rinviene una definizione di colpa. L'art. 2043 c.c. la individua, insieme al dolo, come criterio di imputazione della responsabilità civile senza, tuttavia, fornire elementi utili alla sua ricostruzione contenutistica. Da una ricognizione delle altre norme codicistiche contenenti un riferimento alla colpa è possibile rilevare che il Legislatore ha impiegato detta nozione con accezioni diverse, ovvero come fatto imputabile al danneggiato, come sinonimo di inadempimento o di malafede. In altre disposizioni la colpa viene, invece, impiegata alla stregua di criterio di imputazione della responsabilità (art. 81 comma. 2 c.c.; art. 384 c.c.). La colpa è, invece, sinonimo di inosservanza di uno standard di comportamento negli artt. 1227 c.c. e 1228 c.c., nell'art. 1335c.c., nell'art. 1915 comma 2 c.c., nell'art. 2395c.c., nell'art. 2600c.c., nell'art. 2706 c.c. Nonostante sia possibile, già alla stregua dei dati positivi ritraibili dalle norme codicistiche sin qui richiamate, ricostruire una nozione di colpa come condotta difforme rispetto ad un modello comportamentale delineato da disposizioni normative ovvero dal parametro generale della diligenza, l'assenza nel codice civile di una definizione compiuta ha da sempre condotto gli interpreti ad enucleare la nozione di colpa civile da quella penale delineata all'art. 43 c.p., a mente del quale il delitto è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. È stata, così, elaborata una definizione di colpa civile coincidente con il comportamento cosciente dell'agente, ancorché non finalizzato a recare danno ad altri, da cui derivi un evento lesivo per negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per inosservanza di regole o norme di condotta (Franzoni, 200). A fronte dell'orientamento interpretativo più risalente, che, facendo leva sul dato positivo per il quale l'unica definizione legislativa della colpa si trova nel codice penale, ha proposto la tesi dell'unità ontologica della colpa (Altavilla, 54), più di recente la maggior parte degli autori (Monateri, Arnone, Calcagno, 150) ha, invece, ritenuto che, nel contesto di una sempre più evidente emancipazione della responsabilità civile da quella penale, debba operarsi una necessaria distinzione anche in relazione alla colpa, anche in considerazione della prevalenza, in ambito civilistico, della sua accezione oggettiva a fronte della connotazione soggettivistica, imposta dalla natura personale della responsabilità, assunta nel sistema penale. Secondo una recente opinione (Ruffolo, 94) mentre la colpa penale è condicio sine qua non per la sussistenza del reato e la sua gravità incide sulla determinazione della pena ai sensi dell'art. 133 c.p., nel sistema della responsabilità civile la colpa costituisce uno dei criteri di imputazione della responsabilità, mentre l'ammontare del risarcimento del danno è governato dalle regole della causalità giuridica e non dipende dall'intensità del dolo o dal grado della colpa. Inoltre, secondo l'impostazione in esame, l'assenza di colpa penale non implica necessariamente l'assenza della colpa civile, sussistendo ipotesi di responsabilità civile in cui rileva anche la colpa lieve o lievissima, ed altre fattispecie la cui rilevanza penale sussiste solo se sono connotate da dolo mentre sono produttive di responsabilità in sede civile pur se caratterizzate dalla colpa (come ad esempio la diffamazione). L'indirizzo ermeneutico che nega una relazione biunivoca tra colpa civile e colpa penale valorizza, inoltre, l'autonomia dell'accertamento della colpa civile rispetto a quello condotto in sede penale. Il giudice civile, anche laddove il giudice penale abbia escluso la colpa, può, comunque, verificare la ricorrenza di una fattispecie di responsabilità civile fondata sulla presunzione di colpa o su un criterio di imputazione oggettivo. Secondo un'opinione riconducibile all'orientamento in esame (Monateri, Arnone, Calcagno, 153) l'inconsistenza della teoria unitaria troverebbe riscontro nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità in materia di efficacia del giudicato penale nel giudizio civile, costituendo principio acquisito quello per cui la pronuncia penale di condanna passata in giudicato fa stato nel giudizio civile solo quanto all'accertamento del fatto nella sua oggettività, spettando in via esclusiva al giudice adito per il risarcimento del danno la valutazione della colpevolezza. Il codice di procedura penale del 1930 era ispirato al principio della preminenza della giurisdizione penale cui conseguiva l'autorità erga omnes del giudicato penale di condanna o di assoluzione nei giudizi civili di danno e in ogni altro giudizio extrapenale in cui si controvertesse su situazioni giuridiche soggettive il cui riconoscimento giurisdizionale dipendesse dall'accertamento dei medesimi fatti materiali; e la pregiudizialità penale, ovvero la subordinazione del corso e della sorte dei giudizi extrapenali alla formazione del giudicato penale vincolante. A modificare tale quadro normativo è intervenuta la Corte Costituzionale, che, con le pronunce n. 55 del 1971 e n. 99 del 1973, ha dichiarato l'illegittimità degli artt. 25,27 e 28 c.p.p., in rapporto agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui prevedevano la vincolatività del giudicato penale anche nei confronti di soggetti che non avessero partecipato o che, comunque, non fossero stati posti in condizione di partecipare al giudizio penale. I principi ivi enunciati hanno influenzato le direttive dettate dalla legge del 16 febbraio 1987, n. 81, recante delega al Governo per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, nella quale è stata affermata la generale tendenza verso l'autonomia e la separazione dei giudizi. Il codice di procedura penale del 1988 ha, infatti, recepito tali istanze uniformandosi al fondamentale assunto della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi, con le uniche eccezioni costituite dalle ipotesi contemplate dagli artt. 651 e 652 c.p.p. La prima di tali disposizioni stabilisce, infatti, che la sentenza penale di condanna pronunziata in dibattimento, una volta divenuta irrevocabile, ha autorità di cosa giudicata, ed è quindi vincolante, nel giudizio civile (e amministrativo) di danno promosso contro il condannato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità o all'affermazione che l'imputato lo ha commesso. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che nel «fatto» sono compresi la condotta del colpevole, l'evento e il rapporto di causalità. L'interpretazione della sentenza penale di condanna passata in giudicato compete al giudice civile di merito (come per ogni altro giudicato esterno), per cui ai fatti oggetto dell'accertamento può essere attribuita una configurazione giuridica diversa da quella che è stata data in sede penale, mentre non è consentita una diversa ricostruzione materiale. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi dell'art. 651 c.p.p. la sentenza penale irrevocabile di condanna ha, infatti, efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento del danno quanto all'accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, con esclusione della colpevolezza, il cui esame è autonomamente demandato al giudice civile (Cass. n. 19387/2004; Cass. n. 11432/2004; Cass. n. 8360/2010; Cass. n. 14648/2011; Trib. Milano, n. 1158/2007; Trib. Nola, 30 marzo 2009). Detta sentenza non è, inoltre, vincolante con riferimento alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che riguardano l'individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile (Cass., sez. lav., n. 9220/2014; Cass. n. 19453/2008). Né tale pregnante rivalutazione del fatto sotto il profilo soggettivo è preclusa dall'eventuale emissione, da parte del giudice penale, di statuizioni sul risarcimento e sulle restituzioni ex art. 185 c.p. (Cass. n. 8468/2019; Cass. n. 20786/2018; Cass. n. 14648/2011; Cass. n. 24030/2009). In definitiva, l'accertamento della colpa in sede penale vincola il giudice civile sotto il profilo della ricostruzione del fatto, ma la colpa non è un fatto, tanto che la qualificazione giuridica di un insieme di circostanze come colpa ed il loro apprezzamento alla stregua dei criteri civilistici costituisce spettanza esclusiva del giudice civile. La colpa per violazione di norme giuridiche. Nonostante plurime ragioni sorreggano la tesi della netta distinzione, sul piano ontologico, tra la colpa civile e quella penale, conserva validità la trasposizione in ambito civilistico della morfologia dell'elemento soggettivo delineata nell'art. 43 c.p. La nozione penalistica di colpa è connotata dallo scostamento della condotta da un modello di riferimento, il quale può essere delineato da una prescrizione normativa di fonte legislativa o regolamentare (c.d. colpa specifica o propria) (Marinucci, 219), ovvero da un parametro sociale o professionale di condotta elastico, il quale trova il suo fondamento nell'art. 1176 c.c., che impone al debitore di adempiere qualsivoglia obbligazione con la diligenza del buon padre di famiglia, con la precisazione che per le obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività professionale la diligenza deve essere apprezzata tenendo conto della natura dell'attività esercitata (c.d. colpa generica) (Ruffolo, 81). In entrambi i casi la colpa consiste nell'inosservanza di una regola cautelare di condotta finalizzata alla prevenzione del danno (Salvi, 160). Parte della dottrina (Cafaggi, 307) ha sottolineato l'importanza di stabilire se la norma giuridica cautelare che si assume violata sia formulata in termini elastici o rigidi, atteso che nel primo caso il criterio di imputazione della responsabilità è, comunque, determinato — non tanto attraverso un procedimento di creazione, ma di specificazione della norma — dal giudice, mentre nel secondo è individuato ex ante sulla base di una rigida predeterminazione normativa o regolamentare. La norma a contenuto rigido contiene, dunque, una prescrizione specifica ed assolve alla funzione di tipizzare i comportamenti vietati o permessi. Le disposizioni con funzione di prevenzione sono sempre più numerose nell'ordinamento e riguardano principalmente il settore del diritto del lavoro, della circolazione stradale, dell'attività industriale ed edilizia, della vendita di determinati prodotti, l'esercizio di determinate professioni. Nel codice civile norme di tale natura si rinvengono nella disciplina del rapporto di coniugio, di filiazione, in relazione al curatore e al tutore, al datore di lavoro, al vettore e in materia di concorrenza. Un caso tipico di colpa propria era previsto dall'art. 18 della l. n. 349/1986, che aveva tipizzato l'illecito di danno all'ambiente. Analoga disposizione è oggi contenuta nell'art. 311 comma 2 del d.lgs. n. 152/2006, in materia di danno ambientale. La norma a contenuto flessibile configura, invece, un elenco aperto di comportamenti lesivi la cui violazione può integrare una condotta colposa. Sono, tuttavia, rare le disposizioni tecniche in cui la mera violazione del precetto dà luogo ad un'ipotesi di colpa, nel senso che non è consentito al danneggiante provare l'esistenza di circostanze esimenti. Il modello più frequente di prescrizione comportamentale è, invece, quello della regola che, pur essendo formulata in termini rigidi, consente di attribuire rilevanza ad eventuali deviazioni dalle circostanze presupposte dalla norma che caratterizzano la fattispecie concreta. Di norma la disposizione cautelare descrive, infatti, un modello comportamentale che postula la ricorrenza di alcune circostanze (assunzioni implicite) (Cafaggi, 314) la cui sussistenza in concreto acquista, nella maggior parte dei casi, rilevanza ai fini dell'accertamento della responsabilità (si pensi alla norma che impone di tenere una certa condotta durante il sorpasso, la quale postula implicitamente che non vi siano altre autovetture che sopraggiungano dall'opposta corsia di marcia. Il verificarsi di tale ultima circostanza può, dunque, comportare la deviazione dal modello comportamentale, con la conseguenza che il giudice è chiamato ad integrare la prescrizione attingendo alle regole flessibili di cautela (diligenza e prudenza) e giungendo, in questo modo, anche ad escludere la colpa del conducente). La giurisprudenza di legittimità definisce la regola cautelare alla base della nozione di colpa come un precetto, scritto o non scritto, la cui disciplina è diretta «a scongiurare o, tollerabilmente, a contenere il pericolo e le conseguenze dannose involontarie» di quello specifico evento di danno che costituisce la concretizzazione del rischio che la norma appunto vuole evitare o scongiurare (Cass. n. 13393/2001; Cass. n. 2220/2000; Cass. n. 3553/1998). Dalle pronunce più risalenti emergeva l'idea secondo la quale nell'ipotesi della responsabilità per colpa specifica, per poter affermare l'esistenza di tale elemento soggettivo fosse sufficiente il solo richiamo all'inosservanza di leggi o di regolamenti vigenti al momento dell'evento, e che la prova della colpa fosse offerta dalla dimostrazione dell'obiettivo contrasto tra la condotta e l'obbligo imposto dalla norma, senza che rilevasse l'atteggiamento mentale dell'agente (Cass. sez. lav., n. 5051/1981; Cass. S.U., n. 6476/1984; Cass. S.U., n. 5361/1984; Cass. n. 5883/1991; contra Cass.S.U., n. 500/1999). Tale impostazione ha subito un temperamento attraverso l'adesione alla teoria dello scopo della norma violata, desumibile da diverse pronunce di legittimità in cui è stato chiarito che, al fine dell'attribuzione della responsabilità per colpa, non è sufficiente la mera violazione della norma di condotta, essendo, altresì, necessario che la norma violata abbia di mira lo specifico fine di evitare la produzione di un determinato evento dannoso (Cass. n. 13830/2010, secondo cui «in tema di responsabilità civile, affinché la violazione di una norma possa costituire causa o concausa di un evento, è necessario che essa sia preordinata ad impedirlo; in caso contrario la condotta trasgressiva del contravventore assume autonoma rilevanza giuridica, non però costitutiva di un rapporto di causalità con l'evento, in relazione al quale diviene un mero antecedente storico occasionale»; Cass. n. 6242/1994). Quanto all'incidenza della formulazione della norma cautelare sull'accertamento della colpa, la giurisprudenza più risalente associava ad alcune norme cautelari di condotta a contenuto rigido la presunzione di colpa e giustificando tale assunto sul presupposto che la colpa si presume in quanto si presume l'attitudine causale dell'osservanza della prescrizione ad evitare l'evento, e, quindi, in altre parole, perché si presume il nesso di causalità (Cass. pen. n. 1439/1972; Cass. pen. 31 gennaio 1995). Va, tuttavia, evidenziato che l'orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità civile non solo riconosce importanza decisiva alla sussistenza di un collegamento causale tra la colpa per inosservanza di norme giuridiche e l'evento dannoso, ma, in ossequio ad un principio di compresenza della regola tecnica a contenuto rigido con quella a contenuto variabile, sostiene la non vincolatività della norma tecnica ai fini della valutazione dell'esistenza della colpa (Cass. n. 8366/2010; Cass. n. 24432/2009; Cass. n. 18467/2003). Secondo quest'impostazione l'osservanza della norma a contenuto rigido non vale ad escludere la responsabilità, ben potendo il giudice integrare la decisione con valutazioni basate su elementi circostanziali da essa non considerati. In particolare elementi di fatto non tenuti presenti dalla prescrizione possono risultare idonei a giustificare il comportamento del danneggiante, nonostante sia stato deviante rispetto al modello contenuto nella regola di condotta (Cass. n. 12390/1995; Cass. n. 587/1982; Cass. n. 6429/1981; Cass. n. 453/1980; Cass. n. 2207/1976; Cass. S.U., n. 5346/1978; Cass. n. 2319/1973. Nella giurisprudenza di merito, App. Milano, 17 dicembre 1982, n. 5346, in Giust. civ., 1979, 17; Trib. Roma II, 28 aprile 2008). Il principio è stato ribadito in materia di circolazione stradale, dove la Suprema Corte ha precisato che il rispetto, da parte dell'agente, dell'obbligo, imposto dall'art. 141 del codice della strada, di regolare la velocità in relazione alle caratteristiche ed alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, onde evitare ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione, deve essere valutato tenendo conto anche delle eventuali superiori cognizioni dell'agente in ordine alle caratteristiche delle menzionate circostanze contingenti, non potendo il giudice procedere alla ricognizione dell'an o del quantum della colpa di detto agente sulla base di parametri cognitivi di carattere oggettivo o astratto, restando diversamente esclusi, dal novero delle condotte colpose, comportamenti stradali ragionevolmente inescusabili per la specifica misura di negligenza o di imprudenza manifestata dal relativo autore (Cass. n. 9646/2017). La colpa per violazione di norme di comune prudenza. Nella responsabilità extracontrattuale la colpa è la deficienza dello sforzo diligente dovuto nei rapporti della vita di relazione; nella responsabilità contrattuale essa si identifica con l'inosservanza della normale diligenza, ovvero dello sforzo volitivo e tecnico normalmente adeguato al soddisfacimento dell'interesse del creditore. La dottrina definisce la diligenza come l'impiego delle energie e dei mezzi utili alla realizzazione di un determinato fine e, in particolare, al soddisfacimento dell'interesse creditorio, ovvero alla salvaguardia degli interessi dei terzi nella vita di relazione (Bianca, in Nov. Dig.,1965). Non rinvenendosene una nozione nel codice civile. la definizione di diligenza si trae da una lettura sistematica delle numerose disposizioni codicistiche ed extracodicistiche che ad essa fanno riferimento quale parametro di comportamento (Rodotà, Diligenza, 1964). Dalla lettura coordinata di tali norme la dottrina trae la definizione di diligenza quale regola di comportamento per il debitore in relazione a quanto dovuto, e, al contempo, quale criterio di responsabilità. Alla stregua delle indicazioni ritraibili dalle disposizioni codicistiche si rileva, inoltre, come la diligenza non risulti mai disgiunta da una qualificazione ulteriore (diligenza «ordinaria» (art. 1227), «normale» (art. 1431), «dovuta» (art. 1091), «del buon padre di famiglia» (art. 382, 1001, 1148, 1176, 1587, 1710, 1768, 1804, 2148, 2167), «del mandatario» (art. 2392, 2407), relativa alla «natura dell'attività esercitata» (art. 1176) o «della prestazione dovuta» (art. 2104) e ciò ha indotto una parte della dottrina ad evidenziarne la non unitarietà (Rodotà, Diligenza, 1964). In relazione alle varie modalità che ne specificano il contenuto, la diligenza viene, in particolare, definita come criterio di responsabilità oggettivo, astratto (Di Majo, 1990, 72), ma elastico (Rodotà, Diligenza, 1964) e relativo, cioè non uniforme, ma commisurato al variare delle situazioni (Di Majo, 1988, 425). Le disposizioni del codice civile che contengono il riferimento alla diligenza trovano il proprio fondamento nel principio generale della diligenza del «buon padre di famiglia» sancito dall'art. 1176 c.c., concetto, quest'ultimo, che, nonostante la sua vetustà, costituisce ancora una nozione idonea ad esprimere la misura della diligenza alla stregua delle mutevoli esigenze che via via caratterizzano le diverse epoche storiche. Nella sua accezione moderna il buon padre di famiglia indica colui che, tendendo alla realizzazione di interessi altrui, è guidato da una speciale sollecitudine che, pur non eccezionale, deve esplicarsi in maniera notevole, cioè buona, in conformità alle mutate e sempre più complesse esigenze della vita di relazione (Giorgianni, 597). Risponde a tale necessità la formulazione del secondo comma dell'art. 1176 c.c., secondo il quale nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata. In definitiva, alla stregua del primo comma dell'art 1176 c.c. il debitore deve impiegare la diligenza del buon padre di famiglia, ovvero uno sforzo volitivo e tecnico improntato ad un canone di normalità, ma adeguato al fine e, quindi, alla natura ed all'oggetto della prestazione contrattualmente dovuta. Nell'adempimento delle obbligazioni professionali la diligenza va, invece, valutata con riguardo alla natura dell'attività esercitata, nel senso che va parametrata alla normale perizia della categoria professionale cui il debitore appartiene. Il medico, ad esempio, è tenuto ad una prestazione professionale qualificata dalla specifica attività esercitata ex art. 1176 comma 2 c.c. ed ex art. 2236 c.c. nel senso che è tenuto a conoscere e ad applicare tutte le cognizioni tecniche che riguardano la specifica e peculiare attività esercitata. Ciò significa che il professionista deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale della sua categoria ed è tale standard che vale a determinare sia il contenuto della perizia dovuta, sia la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato ad evitare l'inadempimento, nonché il correlato grado di responsabilità. L'adeguamento del modello comportamentale astratto delineato dall'art. 1176 c.c. alla concreta attività del soggetto si rinviene anche nella giurisprudenza, secondo la quale la diligenza del buon padre di famiglia è quella diligenza che è lecito attendersi da qualunque soggetto di media avvedutezza ed accortezza, memore dei propri impegni, cosciente delle relative responsabilità (Cass. n. 2428/1990; Cass. n. 8845/1995; Cass. n. 6038/2001). In particolare la grave ed inescusabile imprudenza, negligenza ed imperizia del debitore deve essere parametrata non già alla diligenza media del buon padre di famiglia, bensì alla specifica professionalità esigibile in concreto dal soggetto al quale, se qualificato, è imposta la doverosa predisposizione di tutti gli accorgimenti resi disponibili dalla tecnica più avanzata e dalle cautele idonee a prevenire l'evento dannoso (art. 1176 c. 2 c.c.) (Cass. n. 4471/1992; Cass. n. 19778/2003; Cass. n. 11419/2009; Cass. n. 17143/2012). Il principio trova applicazione anche in materia di responsabilità civile della pubblica amministrazione, dove la Corte di cassazione ha chiarito che, con riferimento all'obbligo di manutenzione delle strade, l'omessa predisposizione delle opere accessorie laterali alla sede stradale non può giustificarsi in ragione della mancata previsione normativa del dovere di adottare specifiche misure di sicurezza, essendo l'amministrazione tenuta comunque a valutare in concreto, ai sensi dell'art. 14 del codice della strada, se quella strada possa costituire un rischio per l'incolumità degli utenti, atteso che la colpa della stessa pubblica amministrazione può consistere sia nell'inosservanza di specifiche norme prescrittive (colpa specifica), sia nella violazione delle regole generali di prudenza e di perizia (colpa generica) (Cass n. 10916/2017). La giurisprudenza di legittimità ha, altresì, evidenziato come ai diversi gradi di specializzazione corrispondono diversi gradi di perizia, con la conseguenza che il medico che assume un'obbligazione nella qualità di specialista è tenuto alla perizia normale alla categoria (Cass. n. 8826/2007). La diligenza: da parametro per la determinazione della condotta dovuta a criterio di responsabilitàLa diligenza, intesa come applicazione di uno sforzo adeguato ad un fine, costituisce, al contempo, fonte di determinazione del normale contenuto del comportamento dovuto, tanto nell'ambito di un rapporto obbligatorio, quanto nell'ambito della vita di relazione, e parametro di valutazione della condotta dell'obbligato in relazione al risultato dovuto ed agli eventuali impedimenti incontrati. Secondo parte della dottrina (Bianca, Diritto civile, IV, 1994, 90) nella prima accezione la diligenza costituisce, insieme alla buona fede, una determinazione legale generale della prestazione e, pertanto, concorre, insieme alle eventuali specifiche norme di legge cogenti o suppletive, al titolo ed agli usi ad integrarla contenutisticamente. Nella seconda delle accezioni richiamate la diligenza integra un criterio di responsabilità. Per tale ragione la nozione di diligenza è tradizionalmente connessa al concetto di colpa, la quale, quanto meno in un'accezione lata ed atecnica, viene definita come mancanza di diligenza e viene, pertanto, identificata con la negligenza. La colpa, infatti, «si precisa più propriamente — nel suo significato più comune — come omissione di diligenza che pregiudica un altrui interesse giuridicamente tutelato». Essa «inserisce in tal modo la negligenza nel tema dell'illecito, giustificando la responsabilità del soggetto sul fondamento del mancato impiego dello sforzo dovuto che avrebbe evitato l'altrui danno» (Bianca, 1965, 196). In quest'ottica incorre in responsabilità «chi poteva prevenire l'evento con la diligenza occorrente» (Maiorca, 575), con la conseguenza che la diligenza diviene essa stessa oggetto di valutazione in relazione alle circostanze del caso concreto. L'indagine intesa ad individuare i criteri di determinazione della misura della diligenza richiesta nella singola fattispecie al duplice fine di stabilire di volta in volta il comportamento dovuto e il parametro dell'eventuale giudizio di responsabilità postula la ricognizione dei singoli aspetti contenutistici in cui tale generale standard comportamentale si articola. Una parte della dottrina (Bianca, Diritto civile, IV, 1994, 92) ha enucleato dal contenuto della diligenza in una serie di aspetti che concorrono in varia misura ad integrare lo sforzo diligente che il debitore è tenuto ad applicare. Tali specifici profili sono: 1) la cura, ovvero l'attenzione volta al soddisfacimento dell'interesse creditorio consistente nella preparazione della prestazione e nel controllo delle proprie capacità e mezzi per la sua esecuzione; 2) la cautela, ovvero l'osservanza delle misure di cautela idonee ad evitare che sia impedito il soddisfacimento dell'interesse che l'obbligazione è diretta a soddisfare e che siano pregiudicati altri interessi del creditore giuridicamente tutelati. Il dovere del debitore di non ledere la persona o i beni del creditore mediante un comportamento imprudente rileva nella vita di relazione a prescindere da uno specifico rapporto obbligatorio e la sua violazione dà luogo ad un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale. Ma il comportamento prudente è dovuto anche in base al rapporto obbligatorio. È appena il caso di ricordare come una parte della dottrina, partendo dal presupposto che l'obbligazione implica il rispetto della sfera giuridica del creditore, ipotizza l'esistenza di obblighi distinti ed accessori rispetto all'obbligazione principale, i c.d. obblighi di protezione o di sicurezza, rinvenendo il loro fondamento nella buona fede. Altra tesi non condivide detta costruzione concettuale in quanto astrae l'interesse di protezione da quello di prestazione, posto che la prestazione ricomprende ciò che è dovuto dal debitore e la salvaguardia della persona e delle cose è dovuta con la stessa intensità dell'obbligazione principale e non nei limiti di un apprezzabile sacrificio, con la conseguenza che la protezione dei beni-interessi del creditore o di terzi rientra nella prestazione dovuta e soggiace al parametro di valutazione della diligenza con la conseguenza che in caso di mancata adozione di cautele intese ad evitare l'evento dannoso, il creditore può esperire tutti i rimedi contro l'inadempimento, e il debitore ne risponde pienamente e non nei limiti di un apprezzabile sacrificio; 3) la perizia, ossia l'impiego adeguato di nozioni e strumenti tecnici. La dottrina distingue tra tale accezione oggettiva della perizia e la nozione soggettiva di abilità e preparazione tecnica dell'agente. Va, comunque, evidenziato che la perizia non è un'entità distinta della diligenza, ma ne costituisce un momento indefettibile, e il debitore è tenuto ad una ordinaria perizia, commisurata alla propria qualifica personale e, in particolare, al proprio grado di specializzazione. 4) la legalità, ovvero l'osservanza delle norme giuridiche rilevanti al fine del soddisfacimento dell'interesse del creditore o, comunque, dei consociati e al rispetto della sua sfera giuridica. Ciascuno di tali momenti contenutistici della diligenza concorre a determinare la prestazione ai fini dell'esatto adempimento ovvero il comportamento dovuto nei confronti dei consociati nella vita di relazione. Difatti, anche la colpa extracontrattuale si specifica negli aspetti appena esaminati dell'incuria, dell'imprudenza, dell'imperizia e dell'illegalità. E precisamente nell'ambito della responsabilità aquiliana l'incuria consiste nella negligenza in senso stretto, ovvero nella carenza dell'attenzione normalmente occorrente nella vita di relazione o specificamente richiesta dalla particolare posizione rivestita dall'agente ovvero dalla situazione o dall'attività da questi svolta. L'imprudenza coincide con la mancata adozione delle misure di cautela idonee a prevenire il danno in forza di comuni regole comuni o di specifiche disposizioni normative. Tali regole cautelari possono derivare anche da una fonte contrattuale (si pensi all'ipotesi in cui vengano imposte da un contratto di trasporto avente ad oggetto l'erogazione di prestazioni di istruzione o incontri sportivi) e in tal caso la loro inosservanza nei rapporti con i terzi assume valore probatorio del carattere colposo del fatto. L'imperizia si identifica, anche in ambito extracontrattuale, con l'inosservanza delle regole tecniche proprie di una determinata professione dipendente dalla mancata preparazione dell'agente ovvero dalla carenza dei mezzi tecnici utilizzati. Il parametro di valutazione dell'imperizia è quello dello standard adeguato a prevenire la produzione di danni ingiusti nella vita di relazione. L'illegalità è l'inosservanza di specifiche disposizioni normative intese a neutralizzare o a limitare il rischio di danni. L'illegalità costituisce la forma di colpa civile corrispondente alla colpa penale per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline ai sensi dell'art. 43 c.p.. La giurisprudenza ha recepito la scissione della diligenza nei suddetti profili contenutistici (Cass. n. 17143/2012). Con particolare riferimento all'aspetto della legalità, nel settore principale in cui detto parametro trova applicazione, ossia quello delle norme sulla circolazione stradale, la Suprema Corte ha più volte precisato come l'inosservanza della norma con finalità preventiva rende il fatto colposo solo laddove il danno si sia verificato proprio a cagione di tale violazione. Affinché la violazione di una norma possa costituire causa o concausa di un evento, è, infatti, necessario che essa sia preordinata ad impedirlo; in caso contrario la condotta trasgressiva del contravventore assume autonoma rilevanza giuridica, la quale, tuttavia, non è costitutiva di un rapporto di causalità con l'evento, in relazione al quale diviene un mero antecedente storico occasionale. Difatti, non è la violazione di una norma scritta di condotta la fonte della responsabilità — o della limitazione dell'altrui responsabilità in sede risarcitoria —, bensì il comportamento che la violazione medesima viene ad integrare, purché lo stesso abbia esplicato incidenza causale sull'evento dannoso (Cass. n. 13830/2010; Cass. n. 8366/2010; Cass. n. 12390/1995; Cass. n. 24432/2009). In definitiva l'infrazione di regole cautelari di condotta non può dare luogo a responsabilità civile per un evento dannoso nel cui processo causativo l'infrazione medesima non abbia trovato utile inserimento, quale elemento ricollegabile con nesso eziologico all'evento stesso. La violazione di norme giuridiche a contenuto preventivo rende il fatto colposo, ma il loro rispetto non esime, di per sé solo, dall'imputazione della responsabilità ove si riscontri il mancato rispetto delle comuni regole di prudenza, la cui osservanza non è affatto esclusa dalla previsione di una specifica diposizione scritta (Cass. n. 453/1980; Cass. n. 2069/1977; Cass. n. 2319/1973; Cass. n. 2147/1969). In quest’ottica, in materia di responsabilità della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 2043 c.c., la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che, ai fini della configurabilità della responsabilità per attività provvedimentale, non è sufficiente la sola violazione di norme giuridiche che dia luogo ad esercizio illegittimo della funzione pubblica, ma è necessario che si verifichi un evento dannoso che incida su un interesse rilevante per l'ordinamento e che sia eziologicamente connesso ad un comportamento caratterizzato da dolo o colpa, non essendo sufficiente la mera illegittimità dell'atto a determinarne automaticamente l'illiceità, sicché il criterio di imputazione è correlato ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento dell'elemento soggettivo e della connotazione dell'azione amministrativa come fonte di danno ingiusto (Cass. n. 27800/2017). La prevedibilità nella colpaQuando si passa dall'individuazione del modello comportamentale attraverso l'enucleazione delle regole di condotta al momento della verifica della sua osservanza da parte del debitore o del danneggiante, l'accertamento si arricchisce di un nuovo parametro: quello di prevedibilità ed evitabilità dell'evento lesivo. Secondo la maggior parte della dottrina il fondamento della responsabilità colposa è, infatti, costituito dalla prevedibilità ed evitabilità dell'evento e, cioè, dalla violazione del dovere che grava sull'agente modello e sull'uomo coscienzioso e avveduto operante nelle medesime condizioni (homo eiusdem professionis et condicionis) di riconoscere come pericolosa l'attività posta in essere alla stregua delle cognizioni che questi deve necessariamente possedere correlate ad una specifica situazione di fatto e di evitare il verificarsi del fatto lesivo. Il giudizio di prevedibilità si sostanzia, dunque, nella verifica del se un uomo di media diligenza nelle stesse circostanze avrebbe potuto prevedere ed evitare l'evento dannoso quale conseguenza della propria condotta. La dottrina prevalente (Franzoni, 131; Monateri, 65) ritiene che il modello di riferimento in base al quale compiere tale accertamento non può che essere astratto, nel senso che deve prescindere dalle specifiche qualità di cui in concreto l'agente è dotato. Altra opinione ha, invece, proposto di valorizzare, ai fini dell'accertamento della rappresentabilità per l'evento lesivo, specifiche circostanze e particolari qualità dell'agente (Bussani, 57). Secondo tale impostazione solo nel momento del giudizio è possibile precisare i contenuti della condotta esigibile dall'agente ponderando i fattori connotanti la personalità del danneggiante come l'età, l'esperienza, la forza psicofisica, le conoscenze, le attitudini. I criteri di prevedibilità e di evitabilità operano in successione logica, nel senso che il primo costituisce un prius ed attiene al complesso di conoscenze e di valutazioni di cui l'agente può e deve fare uso al fine di rappresentarsi le possibili conseguenze dannose della propria condotta. La prevedibilità si fonda, in primo luogo, sull'esperienza, ovvero sulla constatazione del costante rapporto di causa ed effetto tra una determinata condotta e un determinato evento o pericolo. L'evitabilità consiste, invece, nell'apprestare le misure precauzionali idonee ad evitare il verificarsi del pregiudizio prevedibile. Secondo la giurisprudenza di legittimità la mancata rappresentazione, da parte dell'agente, secondo il criterio della media diligenza ed attenzione del bonus pater familias, della possibilità di un evento dannoso poi in concreto manifestatosi integra un'ipotesi di imprudenza. Il giudizio su tale mancata rappresentazione verte non tanto sulla concreta condizione mentale dell'autore del fatto, quanto sull'osservanza di un obbligo di previsione posto dall'ordinamento a carico di un modello generale di soggetto avveduto (Cass. n. 8066/1993; Cass. n. 3991/1999; Cass. n. 11780/2002; Cass. n. 84794/2009; Cass. n. 524/2011; Cass. n. 3542/2013). La valorizzazione della prevedibilità dell'evento non si pone in contrasto con l'idea di colpa quale deviazione da uno standard di comportamento. Lo scarto dal modello di riferimento si ravvisa, infatti, sia nella violazione della regola cautelare di condotta, sia nell'inosservanza degli obblighi di previsione dell'evento. Viene, dunque, a delinearsi un parametro comportamentale risultante da una somma di doveri di comportamento, riconducibili a due fondamentali categorie: un dovere di comportamento e un dovere di previsione. In questa prospettiva, la Corte di cassazione ha avuto modo di evidenziare che, in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per la manutenzione delle strade, l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito, ancorché non sia tenuto alla custodia e alla manutenzione dei fondi privati che la fiancheggiano, ha l'obbligo di vigilare affinché dagli stessi non sorgano situazioni di pericolo per gli utenti, nonché di attivarsi per rimuoverle, così che è in colpa ai sensi degli artt. 1176, comma 2, c.c. e 2043 c.c. qualora, pur potendosi avvedere con l'ordinaria diligenza della situazione di pericolo, non l'abbia innanzitutto segnalata ai proprietari del fondo, né abbia adottato altri provvedimenti cautelativi, ivi compresa la chiusura della strada alla circolazione (Cass. n. 6141/2018). In caso di patologia ingravescente dal possibile esito letale che determini un'invalidità espressa nei gradi percentuali dei "barèmes" medico legali, l'aggravamento delle condizioni del danneggiato costituisce la mera concretizzazione del rischio, già considerato nella scala dei gradi di invalidità, di un'evoluzione peggiorativa eziologicamente riconducibile all'originaria infermità e, perciò, non integra un ulteriore danno biologico risarcibile, a meno che al tempo dell'accertamento il successivo evento dannoso, ancorché riconducibile all'originaria lesione, fosse sconosciuto alla scienza medica e, quindi, non considerato dai "barèmes" (Cass. n. 29492/2019, in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il risarcimento - in aggiunta al danno biologico precedentemente accertato e liquidato - del pregiudizio derivante dal peggioramento delle condizioni di salute e, poi, dal decesso di un soggetto affetto da virus HCV contratto a seguito di emotrasfusione, trattandosi di avveramento di un prevedibile rischio di aggravamento della patologia epatica originaria). Colpa lieve e colpa grave. L'art. 2236 c.c.Il codice civile non solo non contiene una definizione di colpa, ma non attribuisce rilevanza alla distinzione, enunciata dalla tradizione giuridica attraverso il principio in lege Aquilia et levissima culpa venit, tra colpa lievissima, colpa lieve e colpa grave. Di ciò si ha conferma anche attraverso la Relazione al codice civile da cui si ricava che non è stata accolta la tesi che, sotto il vigore del codice civile abrogato, individuava proprio nella rilevanza della colpa lievissima il tratto distintivo della colpa aquiliana rispetto a quella contrattuale. Il codice e, più in generale, il Legislatore civile ha, invece, accolto la sola graduazione tra colpa ordinaria e colpa grave, nel senso che in talune fattispecie ha condizionato la configurabilità della responsabilità alla sussistenza della colpa grave o del dolo. Da una ricognizione delle ipotesi codicistiche ed extracodicistiche in cui la colpa grave assume rilevanza, si trae che tale connotazione dell'elemento soggettivo è talora collegato ad una limitazione di responsabilità del debitore in deroga al principio generale sancito dall'art. 1218 c.c.. Significative, al riguardo, sono le fattispecie di cui all'art. 789 c.c., secondo cui il donante in caso di inadempimento o di ritardo nell'eseguire la donazione, è responsabile soltanto per dolo o colpa grave; all'art. 2236 c.c., a mente del quale se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave. In altri casi la colpa grave costituisce, invece, un criterio di misura dell'esattezza dell'adempimento (art. 1698 c.c., art. 1713 c.c., art. 1836 c.c., art. 1889 comma 2 c.c.). In altre fattispecie la colpa grave diviene criterio per l'attribuzione di particolari diritti contrattuali (art. 1892 c.c.; art. 1592 comma 2 c.c.). In ambito contrattuale la colpa grave può assurgere, infine, a criterio per delimitare l'oggetto del contratto come nell'ipotesi di cui all'art. 1900 c.c. e in quella di cui all'art. 1229 c.c.. In ambito extracontrattuale la colpa grave costituisce criterio di limitazione della responsabilità (art. 491 c.c., art. 935 c.c., art. 939 u.c., art. 2864 comma 1 c.c., art. 1992 comma 2 c.c., secondo il quale il debitore, che senza dolo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore, è liberato anche se questi non è il titolare del diritto). Al di fuori del codice civile la colpa grave diviene criterio di limitazione della responsabilità in diverse fattispecie (art. 414 cod. nav., in materia di trasporto amichevole; art. 60 c.p.c. in materia di responsabilità del cancelliere e dell'ufficiale giudiziario per il compimento di un atto nullo; art. 64 comma 2 c.p.c. in materia di responsabilità del consulente tecnico d'ufficio; art. 382 comma 2 c.p.p. in materia di querela; art. 22 l. n. 3/1957, in materia di responsabilità degli impiegati dello Stato; art. 93 d.lgs. n. 267/2000, in materia di responsabilità degli amministratori e del personale degli enti locali; art. 2 comma 1, l. n. 117/1988, in materia di responsabilità dei magistrati; art. 61, l. n. 312/1980, in materia di responsabilità degli insegnanti). La colpa grave assolve, poi, ad una finalità punitiva nell'ipotesi della responsabilità per lite temeraria di cui all'art. 96 c.p.c. La gravità della colpa assume, infine, rilevanza ai fini della delimitazione del danno risarcibile, e segnatamente in sede di regresso ex art. 2055 comma 2 c.c., e ai fini della ripartizione del danno ai sensi dell'art. 1227 comma 1 c.c. Tra le disposizioni sin qui richiamate particolare rilevanza sistematica assume l'art. 2236 c.c. in materia di professioni intellettuali. In ambito professionale la colpa consiste, di norma, nell'imperizia e, dunque, nell'ignoranza di cognizioni tecniche ovvero nell'inesperienza professionale. La limitazione della responsabilità ai casi di colpa grave – configurabile allorché il comportamento del professionista sia incompatibile con il livello minimo di cultura ed esperienza indispensabile per l'esercizio della professione — riguarda proprio tale forma di colpa e non si estende alla negligenza e all'imprudenza comuni, come espressamente disposto dall'art. 2236 c.c., a mente del quale detto limite opera solo se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, che, quindi, esulano dalla prassi o dalla comune esperienza. Sono problemi tecnici di speciale difficoltà quelli che richiedono notevole abilità ed implicano la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità, con largo margine di rischio in presenza di ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate, ovvero, con particolare riferimento all'ambito medico, quelli oggetto di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi ed incompatibili tra loro. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non costituisce un criterio di distribuzione dell'onere della prova, bensì un parametro di valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario in relazione alle circostanze del caso concreto (Cass. n. 16275/2015). Ne consegue che, in caso di inesatta realizzazione dell'opera commissionata, grava sull'appaltatore sia l'onere di dimostrare la particolare difficoltà della prestazione, sia l'onere di provare che il risultato della stessa, non rispondente a quello convenuto, è dipeso da fatto a sé non imputabile in quanto non ascrivibile alla propria condotta conforme alla diligenza qualificata, dovuta in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto (Cass. n. 15732/2018). Di conseguenza grava sul professionista tanto l'onere della prova intesa a vincere la presunzione di colpa a suo carico quando trattasi di intervento di facile esecuzione o routinario, quanto l'onere di dimostrare che l'intervento era di speciale difficoltà (Cass. n. 22222/2014; Cass. n. 8826/2007; Cass. n. 10297/2004; Cass. n. 11488/2004). La colpa omissiva.In linea generale il fatto generatore del danno può consistere in una condotta tanto commissiva, ossia in un'azione in contrasto con un obbligo o dovere negativo di non fare, quanto omissiva, coincidente con una condotta che viola un obbligo o dovere positivo di fare o di dare. Con specifico riferimento alla condotta omissiva colposa, il codice civile non contiene alcuna specifica disposizione, tanto che la dottrina e la giurisprudenza hanno da sempre avvertito la necessità di prendere le mosse dal sistema penale in cui il reato omissivo riceve apposita disciplina nell'art. 40 cpv., a mente del quale non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. La nozione civilistica di colpa omissiva è stata, tuttavia, oggetto di fraintendimenti terminologici che hanno dato adito all'impiego di due accezioni, una in senso ampio, coincidente con la mancanza di un comportamento che l'agente aveva la possibilità di tenere nelle circostanze in cui si è verificato l'evento, l'altra in senso stretto, di omissione intesa come mancanza di un comportamento che l'agente aveva l'obbligo giuridico di tenere nelle circostanze in cui si verificò l'evento (Alpa, in Giur. it., 1979, I, 1,1366). Altra parte della dottrina ha, tuttavia, evidenziato che la nozione in senso ampio di colpa omissiva non si distingue in alcun modo dall'essenza della colpa omissiva che caratterizza qualsiasi condotta colposa perché negligente, imprudente, imperita, contraria a norme o consistente nell'omissione di cautele idonee ad evitare il danno. Da ciò la necessità di delimitare il campo di indagine circoscrivendolo alla sola ipotesi di colpa omissiva in senso tecnico. Secondo l'indirizzo ermeneutico dominante in dottrina e in giurisprudenza l'illecito omissivo si caratterizza per l'essenziale tipicità. Esso, ricorre, pertanto, solo nell'ipotesi in cui il soggetto sia titolare di uno specifico obbligo giuridico, espressamente previsto dalla legge, di impedire l'evento e il pregiudizio sia causalmente riconducibile all'inosservanza di tale obbligo (Visintini, in Grandi orientamenti, 114 e ss.; Alpa, Bessone, Zeno Zencovich, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 79). Secondo altro orientamento (Monateri, Arnone, Calcagno, 176) il dovere di agire, dalla cui violazione discenda un danno, può scaturire anche da una specifica situazione caratterizzata dal fatto che l'agente deve ritenersi tenuto a compiere una determinata attività a protezione dell'interesse leso. I sostenitori di tale impostazione precisano, tuttavia, che può essere imposto un obbligo non scritto di agire solo quando il soggetto cui detto obbligo viene attribuito si trovi nella posizione migliore per evitare il danno. In relazione alla responsabilità per danni da illecito omissivo, si registrano nella giurisprudenza di legittimità due orientamenti contrapposti. Secondo un più risalente orientamento, affinché una condotta omissiva possa essere assunta come fonte di responsabilità per danni, non basta riferirsi al solo principio del neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale della condotta del soggetto che non abbia impedito l'evento, ma occorre individuare, caso per caso, a carico di quest'ultimo, un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l'evento lamentato, il quale può derivare, o direttamente da una norma, ovvero da uno specifico rapporto negoziale o di altra natura intercorrente fra il titolare dell'interesse leso e il soggetto chiamato a rispondere della lesione (Cass. n. 13957/2005; Cass. n. 13892/2005; Cass. n. 63/2003; Cass. n. 9520/1998). Secondo altro indirizzo l'obbligo giuridico di impedire il verificarsi di un evento dannoso può, invece, sorgere in capo ad un soggetto non soltanto quando una norma o specifici rapporti gli impongano di attivarsi per impedire l'evento, ma anche quando tale obbligo possa derivare in base a principi desumibili dall'ordinamento positivo, non espresso, quindi, in forme specifiche, con conseguente dovere di agire e di comportamento attivo (Cass. n. 12111/2006). Con specifico riferimento alla responsabilità da illecito omissivo del gestore di impianto sciistico, la Suprema Corte ha chiarito che l'omittente risponde del danno derivato a terzi non solo quando debba attivarsi per impedire l'evento in base ad una norma specifica o ad un rapporto contrattuale, ma anche quando, secondo le circostanze del caso concreto, insorgano a suo carico, per i principi di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., doveri e regole di azione la cui inosservanza integra un'omissione imputabile. Ne consegue che il medesimo non è tenuto, di norma, a vigilare sulla condotta dei singoli utenti, attesa la natura intrinsecamente pericolosa dell'attività sportiva esercitata sulle piste da sci, le dimensioni solitamente ragguardevoli di queste ultime, nonché la normale imprevedibilità, anche per la contestuale incidenza di fattori naturali non governabili dal gestore, delle condotte degli utenti, salvo che alleghi e provi l'intervenuta segnalazione dell'anomalo comportamento dello sciatore, ovvero la diretta percezione di tale comportamento da parte degli addetti all'impianto (che avrebbero dovuto allertare un accorto titolare della struttura), la cui mancata considerazione costituisce omissione inescusabile (Cass. n. 22588/2004; Cass. n. 22344/2014). L'attività di natura discrezionale della CONSOB deve svolgersi non solo nei limiti e con l'esercizio dei poteri, di cui alle leggi speciali che ne regolano il funzionamento, ma anche della norma primaria del neminem laedere, alla luce dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buona amministrazione della P.A. (art. 97 Cost.) e di tutela del risparmio (art. 47 Cost.), con la conseguente applicabilità dell'art. 2043 c.c., che si pone come limite esterno alla sua attività discrezionale, e delle comuni regole del codice civile anche per quanto riguarda la cd. imputabilità soggettiva, il nesso di causalità, l'evento di danno e la sua quantificazione (Cass. n. 26832/2024). La giurisprudenza di legittimità ha, infine, precisato che la condotta attiva colposa, caratterizzata dall'omesso rispetto di regole cautelari proprie ( cd. omissione nell'azione), va distinta dalla condotta omissiva propria (omissione in senso stretto), in quanto, mentre quest'ultima postula, ai fini del risarcimento del danno ad essa conseguente, la violazione di uno specifico obbligo di agire per impedire la lesione di un diritto altrui, la prima presuppone semplicemente il mancato rispetto di regole di prudenza, perizia o diligenza volte a prevenire il danno medesimo ( Cass. n. 7362/2019 ). La colpa concorrenteIl concorso di condotte di più soggetti nella produzione dell'evento è disciplinato dagli artt. 2055 e 1227 c. 1 c.c. La prima disposizione fa conseguire al fatto dannoso imputabile a più persone il regime della solidarietà dell'obbligazione risarcitoria e riconosce a ciascun danneggiante il diritto di regresso nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate. La seconda prevede nell'ipotesi del fatto colposo del danneggiato una diminuzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Una parte della dottrina (Busnelli, Illecito civile, 16-17) ha evidenziato come entrambe le prescrizioni normative, al fine di commisurare la responsabilità del singolo coautore, valorizzano tanto il profilo causale della sua condotta, quanto i criteri della gravità della colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Alla stregua di tale impostazione, nell'ipotesi di concorso di più fatti umani nella causazione dell'evento dannoso anche la colpa sembra assumere rilevanza al fine di delimitare il danno ascrivibile a ciascun partecipe, ivi compreso il danneggiato. Tale lettura non è, tuttavia, condivisa dalla dottrina tradizionale (Forchielli, 96; Scognamiglio, in Riv. dir. comm., 1954, II, 112), la quale intravede nell'art. 2055 c.c. l'enunciazione del principio generale dell'irrilevanza delle concause, corollario della teoria causale condizionalistica, in forza del quale ciascun coautore deve ritenersi unico ed esclusivo responsabile del fatto dannoso, mentre i criteri di ripartizione della responsabilità indicati nel secondo comma opererebbero solo nei rapporti interni tra i danneggianti condebitori solidali e risponderebbero esclusivamente a ragioni di equità. Rispetto alla regola generale sancita dall'art. 2055 c.c., l'art. 1227 c.c., attribuendo rilevanza al concorso colposo del danneggiato ai fini della riduzione del danno risarcibile dal danneggiante, si pone, pertanto, come eccezione (Cattaneo, in Riv. dir. civ., 1967, I, 510). La teoria in esame, ponendosi criticamente rispetto alla tesi c.d. penalistica (Ascari, in Riv. it. dir. pen., 1954, 667 e ss.) — la quale propone una simmetria tra l'art. 187 c.p. e l'art. 2055 c.c., ritenendo che anche in ambito civilistico ogni concorrente deve essere imputabile a titolo di dolo o colpa e deve avere agito in accordo di volontà con gli atri —, sostiene che non occorre indagare sul contegno dei danneggianti al fine di verificare se abbiano agito in concorso volontario, ma bisogna stabilire unicamente se la pluralità di azioni abbia generato un unico evento di danno (Pogliani, 250). E il fatto dannoso previsto dall'art. 2055 c.c. coincide con il danno-evento (De Acutis, in Riv. dir. civ., 1975, II, 527), il quale è collegato alla condotta da un nesso di causalità materiale. L'evento di danno è il risultato di una pluralità di condotte che tutte hanno contribuito sotto il profilo causale al risultato finale, con la conseguenza che, facendo applicazione delle regole sulla causalità, si deve stabilire quali tra i molteplici fatti siano rilevanti nel giudizio di responsabilità. Un diverso indirizzo ermeneutico, pur muovendo dall'impostazione appena richiamata, ha evidenziato che non basta individuare le condotte causalmente rilevanti, ma, valorizzando il tenore letterale dell'art. 2055 c.c., occorre valutare se gli autori siano imputabili. Secondo una prima opinione il significato da attribuire al termine “imputabile” non coincide con quello di colpevole (ossia in dolo o in colpa), ma richiama la nozione di imputabilità in generale, ovvero va riferito anche agli atri criteri di ascrizione della responsabilità previsti dalle fattispecie di responsabilità oggettiva o presunta. Sulla scorta di tale considerazione la dottrina in esame (Franzoni, 732; Salvi, 238) estende l'applicazione dell'art. 2055 c.c. anche ad ipotesi di concorso di più corresponsabili nell'illecito extracontrattuale a diverso titolo (di colpa e di responsabilità oggettiva o presunta), e tra più corresponsabili a diverso titolo contrattuale. L'impostazione causalista è stata, tuttavia, oggetto di critiche. Secondo altra impostazione (Ruffini, Il concorso di colpa e di caso fortuito nella produzione del fatto dannoso, l'esperienza francese e il diritto italiano, in Riv. dir. comm., 1964, I, 39; Gnani, La responsabilità solidale, in Commentario a cura di Schlesinger, art. 2055, Milano, 2005) tale teoria non giustifica il vincolo solidale nell'ipotesi in cui una delle condotte non sia stata condizione necessaria dell'evento. Inoltre non spiega la ragione per la quale se tutte la cause hanno pari efficienza eziologica la misura del regresso dipende dalla gravità della colpa e dall'entità delle conseguenze dannose. Una parte della dottrina (Busnelli, Illecito civile, in Enc. giur., 17) ha, così, ritenuto di superare detta impasse mediante un'interpretazione dell'art. 2055 c.c. che muove dalla nozione di solidarietà, la quale costituisce una delle forme di attuazione dell'obbligazione soggettivamente complessa. La solidarietà risarcitoria si differenzia dalla solidarietà da contratto ex artt. 1292-1313 c.c. perché l'art. 2055 c.c. individua al primo comma la fonte del condebito in un fatto che non è connotato da un interesse comune ai coobbligati, ed al secondo comma prevede una forma di regresso condizionata dalla gravità della colpa e dall'entità delle conseguenze. Qui l'eadem causa è costituita dal fatto imputabile a più persone e non è sufficiente l'accertamento del nesso di causalità tra le rispettive condotte e l'evento, ma occorre stabilire quando ricorrano le condizioni per l'imputazione plurisoggettiva dell'illecito, ovvero quando l'illecito possa ritenersi unitario oppure plurimo. Anche la tesi in esame identifica il fatto dannoso di cui all'art. 2055 c.c. con l'evento di danno, ma, a differenza della tesi causalista, ritiene che l'unità dell'evento sia da ravvisarsi nell'unicità dell'interesse del danneggiato (Gnani, La responsabilità solidale, in Commentario a cura di Schlesinger, art. 2055, Milano 2005, 169; De Cupis, Dei fatti illeciti, 110) leso in conseguenza dell'illecito. Anche tale dottrina è stata oggetto di critica, perché reputata empirica e generica in quanto tendente ad espandere notevolmente le ipotesi di solidarietà risarcitoria, anche in presenza di più condotte dotate di autonomia (Marullo di Condojanni, in Commentario del codice civile diretto da Gabrielli, 429-430). Secondo altra tesi (Orlandi Mauro, 156) occorre partire dall'assunto per il quale la ricostruzione del fatto illecito deve sempre compiersi in funzione del giudizio di responsabilità, con la conseguenza che non può essere disgiunta dal profilo dell'imputazione. Ciò in quanto i criteri di imputazione segnano il confine di rilevanza dei fatti illeciti: il fatto comprende una serie di eventi dei quali può essere attribuito ad un soggetto solo quello ad esso ascrivibile in forza di un criterio o titolo di responsabilità. Così in caso di dolo il fatto illecito comprende l'evento voluto; nel caso della colpa esso comprende quello prevedibile (Gorla, 410). Applicando alla fattispecie di cui all'art. 2055 c.c. l'assunto per il quale causalità ed imputazione si pongono in rapporto di reciproca implicazione, la dottrina in esame enuclea dalla disposizione due concetti: a) quello di “fatto dannoso”; b) quello di imputabilità plurisoggettiva. Il primo concetto è più ampio della nozione di fatto doloso o colposo perché include tutti i possibili criteri di imputazione del fatto illecito e, dunque, anche i fatti generatori di responsabilità oggettiva e presunta (ORLandi Mauro, 126). L'unicità del fatto dannoso è determinata dalla connessione degli eventi, la quale va accertata sulla scorta dei criteri di imputazione. Più precisamente il fatto dannoso è il risultato della simultanea e concorrente applicazione di più criteri di imputazione (Orlandi Mauro, 126). Nelle fattispecie di responsabilità oggettiva è la legge a stabilire detta connessione (si pensi al concorso del committente per il fatto colposo del commesso compiuto mentre è in servizio, regolato dall'art. 2049 c.c.). Nel caso di concorso di eventi colposi, l'accertamento dell'unicità del fatto dannoso è, invece, più complessa. Secondo la tesi in esame occorre, infatti, muovere dalla considerazione che la nozione di colpa implica il concetto prevedibilità e, poiché il criterio di imputazione ritaglia i confini dell'illecito, l'applicazione dell'art. 2055 c.c. trova fondamento sulla prevedibilità della colpa altrui (Orlandi Mauro, 151). Ove tale prevedibilità non ricorra non può affermarsi la sussistenza di un vincolo di solidarietà tra i coautori dell'illecito sul solo presupposto dell'efficienza causale dei rispettivi apporti. Il ruolo della colpa nel concorso di plurime condotte eziologicamente efficienti rispetto ad un evento di danno è, in conclusione, assai controversa tra gli interpreti e per l'orientamento che ne sostiene la rilevanza ai fini dell'operatività del regime della solidarietà stabilito dall'art. 2055 c.c. essa assume il duplice ruolo di elemento di unificazione tra più condotte causalmente efficienti rispetto al danno-evento, coincidente con la prevedibilità dell'altrui condotta colposa, e parametro di misurazione dell'entità del regresso, insieme a quello dell'entità delle conseguenze, nei rapporti tra i coobbligati solidali. Tale ultima impostazione ha ottenuto conferma da parte della giurisprudenza di legittimità, la quale ha enunciato il principio per il quale in tema di responsabilità extracontrattuale, a differenza di quanto previsto dall'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di un fatto doloso o colposo, il successivo art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il fatto dannoso, con la conseguenza che, mentre la prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno ed in cui favore è stabilita la solidarietà. L'unicità del fatto dannoso richiesta dall'art. 2055 c.c. deve, dunque, essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, perciò, tale forma di responsabilità, volta a rafforzare la garanzia del danneggiato, pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempre che le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno. A fronte di una serie di accadimenti che vengano denunciati come unico fatto dannoso plurisoggettivo, qualora siano individuabili più soggetti responsabili di uno stesso fatto lesivo, la regola — posta a vantaggio del danneggiato — è la solidarietà. Condizione di operatività di tale principio è che il fatto dannoso sia unico rispetto al danneggiato, anche se risulti da più azioni od omissioni poste in essere anche in diversi contesti di tempo e di luogo da diversi soggetti, e solo se uno degli autori del fatto dannoso propone l'azione di regresso il giudice è tenuto a graduare le diverse responsabilità (Cass. n. 19492/2007; Cass. n. 16810/2008). Di conseguenza, rispetto ad un illecito plurisoggettivo che abbia prodotto un danno nei confronti di un soggetto, tutti coloro che vi hanno preso parte, a prescindere dall'entità del contributo apportato, non solo sono responsabili del danno, ma lo sono solidalmente. Da tale regime discende, da un lato, il rafforzamento della garanzia patrimoniale del danneggiato, il quale può rivolgersi alternativamente verso più persone al fine di ottenere il ristoro dell'intero pregiudizio subito; dall'altro, l'alleggerimento della sua posizione processuale, non essendo egli onerato della prova della misura delle rispettive responsabilità, il cui accertamento è solo eventuale ed ha rilevanza esclusivamente interna ai fini dell'esercizio del diritto di regresso. La Suprema Corte ha, inoltre, precisato che il principio di solidarietà sancito dall'art. 2055 c.c. non si pone in contraddizione con il diverso e pariordinato principio per cui, anche in caso di illecito plurisoggettivo, ciascuno può essere chiamato a rispondere solo dei danni che ha provocato o concorso a provocare, ovvero del danno rispetto al quale la sua condotta attiva od omissiva opera come causa efficiente, cioè dell'evento di danno in relazione al quale il suo comportamento si pone come antecedente causale necessario. Ne deriva che, qualora si siano verificati diversi episodi a danno di un medesimo soggetto che chiede il risarcimento del danno complessivamente subito a tutti i soggetti coinvolti, il giudice, per pronunciare una condanna solidale e per l'intero danno subito dalla vittima, è tenuto a verificare, e a dare conto in motivazione, se si tratti, in tutto o in parte, di episodi distinti e scindibili che abbiano prodotto, a loro volta, danni distinti, e dovrà procedere all'accertamento della responsabilità a carico di ciascuno dei soggetti coinvolti, ritenendolo responsabile dell'intero danno provocato, se il fatto dannoso è unico, o del danno provocato dal solo segmento causale che provocato dalla sua partecipazione (Cass. civ., n. 20192/2014; Cass. civ., n. 6041/2010; Cass. civ., n. 17397 del 2007; Cass. civ., n. 6365/2002). Colpa e regresso. Il secondo comma dell'art. 2055 c.c. ancora la determinazione della quota risarcitoria di ciascun concorrente nell'illecito e, quindi, della misura del diritto di regresso, al duplice criterio della gravità della colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel caso in cui all'esito dell'accertamento di tali parametri non sia possibile addivenire a tale determinazione, la misura delle singole quote di responsabilità si presume uguale. I criteri indicati dalla norma sono del tutto eterogenei, attenendo il primo alla morfologia della fattispecie dell'illecito civile e il secondo alle conseguenze che dalla sua integrazione derivano. Una parte della dottrina identifica, infatti, tali conseguenze nei danni derivanti dalla lesione dell'interesse giuridicamente protetto (Orlandi Mauro, 284). Altri (Gnani, 207), invece, fanno coincidere le conseguenze con l'evento, ritenendo che la disposizione in esame intenda riferirsi al fatto illecito e non ai danni che ne derivano. L'accertamento inteso a determinare la ripartizione interna del debito risarcitorio dei corresponsabili riguarda, in primo luogo, la gravità della colpa. Esso consiste, pertanto, in una comparazione tra lo standard comportamentale esigibile sulla scorta delle regole cautelari scritte o di esperienza che vengono in rilievo nel caso concreto e la condotta tenuta dal singolo agente. Una parte della dottrina (Marullo di Condojanni, 454; Gnani, 205; Orlandi, 284) sostiene che la gravità della colpa cui fa riferimento la norma in esame coincide con l'entità dello scostamento della condotta rispetto a tale modello comportamentale. Altri (Duni, in Riv. giur. circ., 1960, 10) ritengono, invece, che per gravità della colpa debba intendersi la maggiore probabilità di produzione dell'evento. Una tesi minoritaria svaluta il criterio dell'entità delle conseguenze dannose ritenendolo assorbito in quello della colpa (Cafaggi, 414). L'orientamento maggioritario propone, invece, una considerazione complessiva e unitaria dei due criteri ed una loro conformazione alla giustizia del caso concreto (Salvi, 1225; De Acutis, 640; Franzoni, L'illecito, 159) evidenziando come detti parametri non necessariamente coincidono in concreto, con la conseguenza che è opportuno procedere ad una compensazione e ad una reciproca correzione nell'ipotesi in cui ad un grado lieve della colpa corrispondano conseguenze di notevole entità, laddove, se si tenesse conto di ciascun parametro singulatim, si potrebbe pervenire a conclusioni abnormi ed inique. L'accertamento del peso risarcitorio gravante su ciascun corresponsabile non può, comunque, prescindere dalla verifica della colpa. Altro orientamento ritiene, invece, che in questo caso debba procedersi alla ripartizione delle colpe alla stregua del solo apporto causale (Franzoni, in Commentario del codice civile Scialoja – Branca, diretto da Galgano, 750), essendo il termine colpa impiegato nella norma in esame in modo atecnico, cioè quale sinonimo di apporto causale nella verificazione dell'evento. Nel caso in cui concorrano soggetti di cui taluni a titolo di colpa ed altri a titolo di responsabilità oggettiva, una prima tesi (De Cupis, 113), facendo leva sulla nozione di colpa in senso soggettivo, riconoscono al concorrente incolpevole sempre e comunque il diritto di regresso per l'intero. Da altri è stato posto in luce che se il responsabile a titolo oggettivo non svolge una funzione di garanzia deve valutarsi in concreto l'efficienza causale di ciascun fatto dannoso (Salvi, 1255). Il diritto di regresso viene, invece, riconosciuto per l'intero al corresponsabile a titolo oggettivo quando rivesta la posizione di garante o sia tenuto per responsabilità indiretta (come nei casi di cui agli artt. 2054 c. 3 c.c., 2047 e 2048 c.c., 2049 c.c.). In caso di concorso di responsabili per dolo e colpa, si ritiene assorbente la presenza del dolo, con la conseguenza che, nei rapporti interni, viene riconosciuto al soggetto in colpa il regresso per intero (Franzoni, L'illecito, 90-91). G Il secondo comma dell'art. 2055 c.c. ancora la determinazione della quota risarcitoria di ciascun concorrente nell'illecito e, quindi, della misura del diritto di regresso, al duplice criterio della gravità della colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel caso in cui all'esito dell'accertamento di tali parametri non sia possibile addivenire a tale determinazione, la misura delle singole quote di responsabilità si presume uguale (Cass. n. 6400/1990). Più precisamente il giudice può fare ricorso alla presunzione di uguaglianza delle colpe di cui all'ultimo comma dell'art. 2055 c.c. solo in presenza di una situazione di dubbio oggettivo e reale, configurabile quando non sia possibile valutare neppure approssimativamente la misura delle singole responsabilità (Cass. n. 6408/1982; Cass. n. 1696/1980). L'accertamento inteso a determinare la ripartizione interna del debito risarcitorio dei corresponsabili riguarda, in primo luogo, la gravità della colpa. La giurisprudenza di legittimità con orientamento costante afferma che in tema di responsabilità solidale per fatto illecito imputabile a più persone, il vincolo di solidarietà che lega i coautori del fatto dannoso importa che il danneggiato possa pretendere la totalità della prestazione risarcitoria anche nei confronti di uno solo di quei coobbligati, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l'eventuale efficienza causale diseguale di esse può avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento fra i corresponsabili; conseguentemente, il giudice del merito, adito dal danneggiato, può e deve pronunciarsi circa la graduazione delle colpe solo se uno dei detti condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri, atteso che solo nel giudizio di regresso può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivate (in tal senso, ex multis, Cass. n. 2692/1991; Cass. n. 620/1995; Cass. n. 3803/2004). Esso consiste, pertanto, in una comparazione tra lo standard comportamentale esigibile sulla scorta delle regole cautelari scritte o di esperienza che vengono in rilievo nel caso concreto e la condotta tenuta dal singolo agente. La gravità della colpa cui fa riferimento la norma in esame coincide con l'entità dello scostamento della condotta rispetto a tale modello comportamentale. L'accertamento del peso risarcitorio gravante su ciascun corresponsabile non può, comunque, prescindere dalla verifica della colpa (Cass. n. 2337/1982; Cass. n. 19934/2004; Cass. n. 22336/2007; Cass. n. 1002/2010). Tale giudizio coincide con la verifica della misura della diligenza violata, ovvero nell'oggettiva valutazione della conformità del comportamento alla regola di condotta che viene in rilievo nel caso concreto. Nel caso in cui concorrano soggetti di cui taluni a titolo di colpa ed altri a titolo di responsabilità oggettiva, una prima tesi facendo leva sulla nozione di colpa in senso soggettivo, riconosce al concorrente incolpevole sempre e comunque il diritto di regresso per l'intero. Tanto meno sono osservate le regole di prudenza, di legalità e di perizia, tanto più grave è la colpa del soggetto (Cass. n. 1002/2010). Il giudice chiamato a conoscere della corresponsabilità ex art. 2055 c.c. deve pronunciarsi sulla graduazione delle colpe solo se uno dei condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri atteso che solo nel giudizio di regresso può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivate (Cass. n. 32930/2018; Cass. n. 16939/2006; Cass. n. 10042/2006). In presenza di fatto illecito di cui siano coautori più persone, ove uno dei condebitori solidali agisca in regresso nei confronti degli altri, l'onere di provare le circostanze idonee a superare la presunzione del pari concorso di colpa, prevista per il caso di dubbio dall'art. 2055 comma 3 c.c., grava, rispettivamente, sull'attore che pretenda il rimborso di una somma superiore alla metà, o sul convenuto che contesti una richiesta pari alla metà, opponendo ad essa la propria totale assenza di colpa, ovvero il grado inferiore di questa (Cass. n. 3626/2017). La colpa del danneggiato Nel giudizio di responsabilità la colpa assume rilevanza anche quando riguarda il comportamento del danneggiato. In questo caso il codice civile in luogo di escludere — sanzionando il danneggiato per la negligenza nella cura e nella custodia di sé — il risarcimento del danno, consente una sua graduazione in ragione del concorso colposo. La colpa costituisce, dunque, elemento strutturale della fattispecie. L'art. 1227 comma 1 c.c. richiede, infatti, che il fatto del danneggiato sia colposo, mentre nel secondo comma fa menzione della diligenza intesa ad evitare il danno. Ciò ha indotto la dottrina a considerare irrilevante il comportamento incolpevole del leso (Barassi, 550; De Cupis, 216; Rovelli, 101; Visintini, La responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari, 57), nel senso che il fatto del danneggiato se non è colposo degrada a concausa naturale, come tale ininfluente ai fini della determinazione del risarcimento. Secondo una parte della dottrina (Bianca, Diritto civile, V, 137 e ss.) la colpa del danneggiato non deve, tuttavia, essere intesa quale vero e proprio criterio soggettivo di imputabilità, ma quale requisito legale per la rilevanza causale del fatto del danneggiato. Ai fini del concorso di colpa rileva, infatti, il fatto obiettivamente colposo a prescindere dall'incapacità o da altre esimenti personali di responsabilità (come, ad esempio, lo stato di necessità). La nozione di colpa, coincidente con quella di omissione della diligenza imposta a tutela di un interesse altrui, può essere impiegata in un'accezione diversa, definita come “colpa obiettiva”, ovvero come difettoso sforzo diligente a prescindere dalla violazione di un interesse altrui (Bianca, Negligenza, in Noviss. Dig. it., 196 e ss.). Al di fuori dello schema dell'illecito, secondo la tesi in esame, la colpa si manifesta come violazione della diligenza intesa “nella sua mera funzione di modello astratto di condotta”, come osservanza della regola tecnica, giuridica e di prudenza che individua il comportamento formalmente appropriato (Bianca, Dell'inadempimento delle obbligazioni, 415). Alla stregua di tale nozione il concorrente fatto colposo del danneggiato può essere intravisto: a) nel fatto non conforme a cautela (si pensi al soggetto che subisce lesioni dall'animale molestato); b) nel fatto inosservante di norme giuridiche (si pensi, in materia di circolazione stradale, all'ipotesi del conducente che non rispetta il diritto di precedenza e dell'altro conducente che procede a velocità eccessiva); c) nel fatto inosservante di regole tecniche (si pensi all'ipotesi in cui l'imprenditore non provvede ad illuminare sufficientemente il luogo di lavoro del proprio dipendente); d) nel fatto inosservante delle regole di condotta imposte al creditore per contratto (si pensi al caso del viaggiatore che non si attiene alle disposizioni dettate dal regolamento del vettore). Secondo altra tesi (Franzoni, Trattato della responsabilità civile. Il danno risarcibile, 22 e ss.; Salvi, in Enc. del dir., 1256; Pucella, in Nuova giur. civ., 1990, II, 4) il primo comma dell'art. 1227 c.c. prevede, innanzitutto, un'ipotesi di concorso di cause e si scinde in due proposizioni prescrittive che attengono ai due momenti essenziali in cui si snoda il giudizio di responsabilità nell'azione risarcitoria: nella prima parte, costituente una regola di fattispecie, viene descritta, appunto, l'ipotesi del concorso del danneggiato nella causazione del danno evento; nella seconda parte è individuata una regola di risarcimento e, precisamente, una regola per la delimitazione del danno risarcibile imputabile al danneggiante. Il criterio di verifica del primo nesso causale è tratto dalla causalità di fatto o materiale, il secondo dalla causalità giuridica ex art. 1223 c.c.. Sulla scorta di tali considerazioni l'opinione in esame sostiene che il giudice, pur sul presupposto dell'unicità del fatto dannoso, è chiamato a compiere una duplice verifica ai fini dell'esatta determinazione del danno attribuibile al danneggiante: a) la verifica della colpa del danneggiato da intendersi come apporto eziologico nella verificazione dell'evento; b) l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. La spiegazione dell'art. 1227 c. 1 alla stregua del principio di causalità non è accettata da una parte della dottrina. Alcuni autori rinvengono il fondamento della disposizione nel principio dell'autoresponsabilità (Cattaneo, Riv. dir. civ., 1967, I, 460 e ss; Di Prisco, 236 e ss.; Trimarchi, 129 e ss.; Betti, 106; Miccio, in Commentario del codice civile, IV, I, Torino 1957, sub art. 1227, 200; De Cupis, 224 e ss.); altri (Cafaggi, Profili di relazionalità della colpa, Padova, 1996) lo individuano nella colpa in senso proprio e spiegano la disposizione in esame ipotizzando una relazione in cui la posizione del danneggiato e la sua eventuale attività costituiscono un elemento essenziale per la definizione della regola di condotta del potenziale danneggiante. Tale ultima tesi è stata sottoposta a critiche. Si è, infatti, osservato che un obbligo giuridico vero e proprio non è configurabile ove si osservi che allo stesso dovrebbe corrispondere un diritto all'osservanza di tale vincolo, ovvero un diritto all'adozione, da parte del danneggiato, di misure e cautele idonee ad evitare il danno a sé. Ma il danneggiante non ha alcuna azione da esperire per l'adempimento di tale obbligo, né ha un diritto tutelato da sanzione. E negli ordinamenti moderni è inconcepibile un diritto soggettivo privo di tutela giurisdizionale. Altra opinione ritiene che quella del danneggiato non è vera e propria colpa perché manca dell'antigiuridicità, in quanto il soggetto che reca danno alla propria sfera giuridica non viola alcun dovere giuridico considerato che ognuno è libero di recare danno a sé stesso e che i consociati non hanno un interesse protetto a che ciò sia vietato (De Cupis, 218). Un autore (Di Prisco, 199) sostiene che l'art. 1227 c.c. contempla un onere nella cui violazione colposa la sanzione legale della riduzione del risarcimento trova la sua fonte. Detta sanzione rinviene, in particolare, la sua ratio nella violazione del principio della buona fede esprimentesi nel divieto di venire contra factum proprium. I due orientamenti in cui confluiscono le diverse teorie richiamate, quello causalista e quello non causalista, si scontrano in relazione ad una fattispecie di significativa rilevanza pratica: il concorso di colpa del soggetto incapace. La giurisprudenza ha ritenuto irrilevante l'incapacità del danneggiato nell'applicazione dell'art. 1227 c.c. (Cass. n. 2704/2005), sostenendo che il principio dettato da tale disposizione, riferibile anche alla materia del danno extracontrattuale per l'espresso richiamo contenuto nell'art. 2056 c.c., della riduzione proporzionale del danno in ragione dell'entità percentuale dell'efficienza causale del soggetto danneggiato si applica anche quando questi sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa, e tale riduzione deve essere operata non solo nei confronti del danneggiato, che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta, ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l'evento di danno subito proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio, restando, peraltro, esclusa — ove essi avessero avuto sull'incapace un potere di vigilanza — la possibilità di far luogo ad una ulteriore riduzione del danno risarcibile sulla base di un loro concorso nella sua causazione per culpa in educando o in vigilando. Sulla scelta tra il criterio della causalità e quello della rilevanza dell'atteggiamento psicologico del danneggiato, si era pronunciata con decisioni difformi la giurisprudenza più risalente, ma il contrasto tra l'indirizzo favorevole all'inapplicabilità della riduzione del risarcimento (Cass. n. 1650/1959; Cass. n. 291/1961) e quello contrario 64 è stato composto dalla sentenza delle Sezioni Unite di n. 351 del 1964, che ha stabilito che il principio di cui all'art. 1227 c.c. della riduzione proporzionale del danno in ragione dell'entità percentuale dell'efficienza causale del comportamento del soggetto danneggiato, si applica pur quando costui sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa. Le argomentazioni poste dalla sentenza delle Sezioni Unite a fondamento di tale assunto sono le seguenti: a) il danno che taluno, sia o non incapace di intendere e di volere, arreca a se stesso non è danno in senso giuridico e non può essere posto a carico dell'autore della causa concorrente, sia in virtù del principio che il risarcimento deve essere proporzionato all'entità della colpa di ciascun concorrente, sia per l'esigenza equitativa di evitare un indebito arricchimento; b) la nozione di “fatto colposo del creditore” di cui all'art. 1227 c.c. deve essere intesa non nel senso che il legislatore ha voluto fare necessario riferimento all'elemento soggettivo della colpa, posto che la colpa ha rilevanza ai fini della responsabilità, che presuppone l'imputabilità, e non ai fini della risarcibilità del danno patito, per il quale quel che conta è il comportamento oggettivamente in contrasto con norme positive e di comune prudenza tenuto dal danneggiato, il quale non può pretendere il risarcimento del danno prodotto a se stesso, né può altrimenti ritenersi che la sua condotta resti assorbita da quella del danneggiante, così da dare tertium comparationis rispetto all'art. 1227, che, invece, riguarda la persona offesa. L'indirizzo ermeneutico fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità sostiene, in definitiva, che la colpa non deve essere intesa come criterio di imputazione, ma come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato (Cass. n. 17152/2002; Cass. n. 14548/2009). L'accertamento della colpaNella responsabilità extracontrattuale per colpa la regola generale è quella per cui l'attore deve allegare e provare la colpa del convenuto, individuando e dimostrando il fatto o i fatti integranti detto elemento soggettivo. L'accertamento della colpa aquiliana si snoda in tre essenziali momenti che corrispondono all'oggetto dell'onere della prova: a) l'accertamento della condotta (commissiva od omissiva) dell'agente; b) l'accertamento di quale sarebbe dovuta essere la diversa condotta che avrebbe dovuto tenere l'agente per legge o per comune prudenza; c) se lo scarto tra la prima e la seconda condotta sia dovuto ad imperizia, imprudenza o negligenza. Oggetto dell'allegazione e della prova è, dunque, la colpa quale deficienza dello sforzo diligente dovuto nell'interesse altrui nella vita di relazione. La diligenza è l'impiego delle energie e dei mezzi utili alla realizzazione di un determinato fine e, in particolare, al soddisfacimento dell'interesse creditorio, in ambito contrattuale, e alla salvaguardia degli interessi dei terzi nella vita di relazione, in ambito extracontrattuale. Essa costituisce al contempo criterio fondamentale di determinazione della prestazione ovvero, nell'illecito aquiliano, del comportamento dovuto nei confronti dei consociati e criterio di imputazione della responsabilità. Nel primo caso essa integra un modello di precisione e di abilità tecnica cui deve uniformarsi il comportamento dell'agente; nella seconda accezione coincide con lo sforzo che questi deve impiegare per evitare l'inadempimento o l'inesattezza dell'inadempimento, ovvero l'ingiusta lesione di interessi di terzi nella vita di relazione. L'oggetto dell'allegazione e della prova di cui è onerato l'attore è, dunque, l'omissione, da parte del convenuto, dello sforzo di diligenza richiesto nel caso concreto e, segnatamente, il discostamento, da parte dell'agente, dagli specifici parametri comportamentali in cui si sostanzia, di volta in volta, la diligenza, ovvero la cura, la cautela, la perizia, la legalità. In definitiva, alla stregua del modello della responsabilità aquiliana, il danneggiato deve dedurre e dimostrare che la condotta tenuta dall'agente sia connotata da specifici profili di colpa e, quindi, dall'incuria (o negligenza in senso stretto), dall'imprudenza quale difetto delle misure di cautela generale o speciale idonee ad evitare il danno), dall'imperizia, ovvero dall'inosservanza delle regole tecniche proprie di una determinata professione, dall'illegalità ovvero dall'inosservanza di norme giuridiche che prevedono specifiche misure idonee ad evitare o diminuire il pericolo di danni ingiusti. Tale rigorosa regola probatoria subisce una significativa attenuazione ove ci si sposti dall'ambito extracontrattuale a quello della responsabilità per inadempimento. Qui il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento, perché l'eccezione si fonda sull'allegazione dell'inadempimento di un'obbligazione, al quale il debitore di quest'ultima dovrà contrapporre la prova del fatto estintivo costituito dall'esatto adempimento. A differenza della responsabilità aquiliana, oggetto dell'allegazione del creditore che agisca per far valere l'inadempimento non è la colpa del debitore, quale discostamento dal parametro della diligenza ex art 1176 c.c., ma l'affermazione della mancata o inesatta esecuzione della specifica prestazione oggetto dell'obbligazione assunta (mancato pagamento di una somma di denaro, mancata consegna o restituzione di una res determinata, trasferimento di un bene viziato, ecc.). Si tratta di una ricaduta, sul piano probatorio, della formulazione dell'art. 1218 c.c., norma cardine in materia di responsabilità per inadempimento, il quale non contiene alcun riferimento alla colpa, né alla diligenza, ma pare fondare un modello di responsabilità tendenzialmente oggettivo, con il limite dell'impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore. Tale ultima esimente di responsabilità sembra porsi in antinomia con il principio di diligenza ex art. 1176 c.c., ovvero con la norma cardine in materia di responsabilità per colpa. Il coordinamento tra l'art. 1218 c.c. e l'art. 1176 c.c. ha dato luogo, come noto, ad un ampio e non ancora sopito dibattito dottrinario. Secondo un primo orientamento (Osti, 209) la responsabilità del debitore segue regole puramente oggettive, con il solo limite dell'impossibilità, oggettiva ed assoluta, della prestazione, poiché la regola sulla diligenza non ha alcun nesso con il giudizio di responsabilità e riguarda esclusivamente la valutazione in termini di esattezza/inesattezza dell'adempimento. Altra teoria, c.d. soggettiva (Coviello, 55) attribuisce, invece, ruolo centrale alla diligenza ed equipara il caso fortuito all'assenza di colpa. A tale tesi si obietta che la diligenza non può, comunque, costituire il limite ultimo della responsabilità del debitore, poiché in questo modo la prestazione si trasformerebbe in prestazione di diligenza, discorrendosi allora di impedimento a carattere di oggettività relativa, ove l'allargamento dell'oggetto della prestazione dedotta in obbligazione porta a considerare non soltanto il risultato dovuto al creditore, ma, altresì, i mezzi necessari per realizzarlo. È, così, emersa una nozione di impossibilità relativa al contenuto del concreto rapporto, ma pur sempre oggettiva, dove la diligenza è regola di controllo degli impedimenti sopravvenuti e non anche limite diretto della responsabilità debitoria (responsabilità sicuramente oggettiva quanto al pagamento di somme di denaro, di consegna di cose generiche, di danni ex recepto e da impresa). Secondo altra parte della dottrina (Mengoni, 204) la diligenza riveste comunque un ruolo centrale in una particolare tipologia di obbligazioni, quelle di facere senza promessa di un risultato. In questa ipotesi il risultato rimane estraneo al contenuto del rapporto obbligatorio e il debitore è considerato inadempiente se non fa uso della diligenza dovuta. La diligenza costituisce, dunque, un parametro inteso a precisare il contenuto dell'obbligazione. Ne deriva che il debitore può liberarsi provando l'impossibilità di attenersi alle regole tecniche o di ordinaria diligenza, ovvero l'impiego delle stesse e, quindi, l'esatto adempimento. Rispetto a tali ultime obbligazioni l'onere dell'allegazione del creditore ha un'estensione più ampia, in quanto verte sulle specifiche insufficienze, da intendersi come discostamenti rispetto al modello comportamentale delineato dagli specifici profili contenutistici della diligenza che vengono in rilievo in relazione alla prestazione contrattuale (incuria, negligenza, imprudenza, imperizia). Con particolare riferimento alla responsabilità medica le Sezioni Unite della Suprema Corte, partendo dall'inquadramento contrattuale tanto della responsabilità della struttura sanitaria, quanto del medico (quanto a quest'ultima attraverso l'applicazione della teoria del c.d. contatto sociale del medico) ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (Cass. S.U., n. 577/2008; ma si veda, più di recente, Cass. n. 18392/2017, secondo cui in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza; Cass. n. 3704/2018; Cass., n. 26700/2018). Diverso è il caso in cui il medico ha garantito al paziente il conseguimento di un determinato risultato, come può accadere in materia di interventi odontoiatrici od estetici. In questo tipo di contratti il sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest'ultimo non come dato assoluto, ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie. Ricorrendo tale ipotesi il sanitario sarà responsabile nei confronti del cliente per l'omesso conseguimento del risultato promesso, ma l'onere di provare che il sanitario aveva garantito il risultato incombe sul paziente (Cass. n. 10014/1994). Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento preteso, nei confronti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dai soggetti danneggiati dall'esondazione di un fiume decorre dal giorno in cui gli stessi hanno avuto la conoscenza (o la conoscibilità) tecnico-scientifica dell'incidenza causale delle carenze di progettazione e di manutenzione delle opere idrauliche. Incorre, pertanto, in un errore di sussunzione (e, dunque, nella falsa applicazione dell'art. 2935 c.c.) il giudice di merito che, ai fini della determinazione della decorrenza del termine di prescrizione, ritenga tale conoscenza conseguita, da parte del danneggiato, in base alla mera percezione - inidonea a rendere concretamente esercitabile il diritto in mancanza di una specifica indagine tecnico-scientifica volta a identificare il rapporto causale - dell'episodio di natura meteorologica determinante l'esondazione (Cass., sez. un., n. 2146/2021, nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, la quale - affermando che i danneggiati avrebbero potuto immediatamente percepire, con la normale diligenza, i difetti delle opere idrauliche e il nesso di causalità con i danni subiti - aveva fatto coincidere il "dies a quo" del termine di prescrizione con l'evento alluvionale, durato tre giorni). Colpa specifica e principio dispositivo La regola per la quale l'inquadramento giuridico della domanda spetta al giudice, compendiata nel brocardo iura novit curia, costituisce un limite al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato il quale, appunto, non può estendersi ai profili giuridici della domanda. Ciò significa che se l'oggetto del processo civile è circoscritto dalle parti attraverso l'allegazione e la prova del fatto secondo il principio iudex iuxta alligata et probata iudicare debet, il giudice, in forza di quanto enunciato dall'art. 113, comma 1, c.p.c. in armonia con l'art. 101 comma 2 Cost., è libero di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata, individuando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, senza che ciò muti l'oggetto del processo e senza che si configuri un vizio di ultrapetizione. Il principio iura novit curia opera tanto in relazione alla valutazione del fatto costitutivo del diritto, inteso come complesso degli elementi che concorrono ad integrare la fattispecie giuridica da cui derivano gli effetti auspicati dall'attore, quanto in relazione alle singole componenti normative che, talora, concorrono ad integrare la fattispecie. È il caso della colpa specifica. Se è vero, infatti, che la colpa non è un fatto, ma una qualificazione giuridica di un fatto scaturente dal raffronto di una condotta (elemento materiale) con un modello comportamentale (elemento normativo), è altrettanto vero che la componente giuridica che vale a connotarla indefettibilmente decide della sua rilevanza e, quindi, ne costituisce parte integrante. Ne deriva che la violazione di una norma comportamentale, poiché costituisce elemento strutturale — sia pure di natura normativa e non materiale – della colpa, concorre ad integrare la morfologia del fatto giuridico dedotto a fondamento della domanda e, quindi, ad identificare l'azione esperita, di tal che diviene oggetto, insieme agli altri fatti, dell'onere di specifica allegazione e prova che incombe sull'attore, ma è, al contempo, soggetto al potere di qualificazione giuridica del giudice e, quindi, al principio iura novit curia. La violazione di una regola cautelare costituisce, dunque, l'essenza, squisitamente normativa, dell'elemento soggettivo, il quale si sostanzia proprio nel contrasto tra la condotta effettivamente tenuta dall'agente e la condotta rispettosa della regola cautelare che avrebbe dovuto essere tenuta. Di conseguenza l'individuazione della norma cautelare violata o, comunque, la specifica descrizione della condotta, da essa imposta o vietata, che si assume sia stata, rispettivamente, omessa o tenuta dall'agente nel caso concreto, vale a specificare le ragioni giustificative della domanda risarcitoria. Ne discende che il giudice, nell'esercizio del proprio potere di riqualificazione giuridica, ove ritenga improprio il riferimento al precetto giuridico e normativo indicato dall'attore, ben può ricondurre il fatto del danneggiante entro altra disposizione. Esula, invece, dal potere di qualificazione giuridica, costituendo, al contrario, immutazione di uno dei fatti posti a fondamento dell'azione: a) l'accertamento e l'individuazione della condotta difforme dalla regola cautelare avente carattere giuridico e normativo, laddove l'attore non svolga alcuna deduzione sul punto, limitandosi, ad esempio, a descrivere solo sotto il profilo naturalistico l'evento dannoso e a collegarlo, sotto il profilo eziologico, ad una situazione di fatto genericamente riconducibile al convenuto, lasciando al giudice il compito di identificare sia la norma o le norme giuridiche — di natura cautelare — di riferimento, sia i profili di difformità di tale condotta rispetto al paradigma normativo individuato (si pensi all'ipotesi del danno riportato dal calciatore in occasione di una competizione sportiva per essere stato proiettato, all'esito di un contrasto con l'avversario, fuori dal perimetro di gioco finendo contro un ostacolo fisso. A fronte dell'allegazione e della prova di tale circostanza, il giudice non può individuare le norme deputate a scongiurare il rischio di cui il danno, così come concretamente verificatosi, costituisce inveramento (e, cioè, ad esempio, a ricercare la norma regolamentare che impone uno spazio minimo libero da ostacoli oltre il perimetro di gioco, ovvero la prescrizione che impone in alcuni sport (come ad esempio nello sci) l'adozione di dispositivi di sicurezza idonei a scongiurare o, comunque, ad attenuare gli effetti lesivi della collisione dell'atleta contro ostacoli fissi. La situazione è paragonabile a quella in cui il giudice, facendo (non corretto) uso dei propri poteri di qualificazione giuridica dei fatti, individuasse, a prescindere da una qualsivoglia allegazione sul punto, le inesattezze adempitive in cui è incorso il contraente evocato in giudizio per la risoluzione del contratto o per l'azione di adempimento; ovvero, in caso di colpa professionale, ove escludesse l'inesattezza adempitiva prospettata dall'attore attraverso l'indicazione dell'inosservanza di una specifica regola tecnica o di determinate linee guida, ma ritenesse, comunque, sussistente l'inesatta esecuzione della prestazione professionale, ma in relazione ad altre e mai dedotte leges artis; b) nel caso in cui l'attore abbia assolto al proprio onere assertorio e probatorio individuando gli specifici profili di divergenza della condotta del convenuto rispetto allo standard comportamentale previsto da una o più norme giuridiche cautelari, il giudice, magari avvalendosi dei risultati dell'accertamento condotto dal c.t.u., da un lato, escluda la contrarietà al paradigma normativo della condotta allegata dall'istante, e, dall'altro, ne individui una diversa (e mai dedotta) fondando su di essa la decisione. Si può, in conclusione, affermare che in relazione al fatto illecito per colpa specifica la puntuale descrizione della condotta in cui si concretizza il contrasto con la prescrizione della norma cautelare violata concorre all'identificazione della domanda quale elemento della causa petendi. Tale conclusione è coerente con il principio, enunciato in giurisprudenza (Cass. n. 14467/2005), secondo il quale in determinati casi la causa petendi, intesa come elemento di identificazione della domanda sulla quale si radica il contraddittorio, non è costituita esclusivamente dall'allegazione degli elementi del fatto sui quali si fonda la pretesa, ma include necessariamente le ragioni di diritto che giustificano le richieste formulate in giudizio. Da questa premessa emerge una delimitazione dell'ambito in cui il giudice può esercitare il potere di qualificazione, posto che la soddisfazione del petitum e, quindi, l'accoglimento della domanda è indefettibilmente connessa alla fondatezza della causa petendi così come congegnata dall'attore, al quale soltanto spetta indicare e specificare la digressione del comportamento dell'agente dalla fattispecie normativa che lo disciplina. La giurisprudenza di legittimità è giunta ad affermare che, qualora la responsabilità venga reputata fondata su colpa propria, sebbene sia sufficiente per affermare l'esistenza di tale elemento psicologico il richiamo alla inosservanza di leggi o di regolamenti, è, tuttavia, necessario che siano espressamente indicate le disposizioni considerate, che devono essere vigenti all'epoca della verificazione dell'evento, senza che possa tenersi conto di normative ad esso posteriori (Cass. sez. lav., n. 5051/1981). Deve, ciò non di meno, ritenersi rispettato l'onere assertorio ove la parte individui con precisione la violazione denunciata, non necessariamente attraverso l'individuazione dell'articolo della legge o del regolamento che si assume violato, ma anche solo con la compiuta descrizione di una condotta omissiva o commissiva, coincidente, rispettivamente, con quella in esso imposta o vietata. La prova della colpa. La differente ampiezza dell'onere probatorio nella responsabilità contrattuale ed extracontrattuale si assottiglia notevolmente ove si osservi che anche in ambito aquiliano il rigore probatorio subisce un temperamento in virtù della possibilità, per il giudice, di ricorrere alla prova presuntiva e alle massime di esperienza, non coincidendo la colpa con uno o più fatti, ma essendo il risultato della qualificazione giuridica di essi (Monateri, Arnone, Calcagno, 188). In particolare, in virtù del principio di acquisizione, il giudice può desumere la prova di tali fatti oltre che dal materiale probatorio introdotto dall'attore, anche da altri elementi fattuali purché siano stati ritualmente acquisiti al processo. La regola probatoria può assumere connotazioni differenti secondo la fattispecie che viene in rilievo. In particolare, talora è necessario che l'attore alleghi e dimostri la devianza del comportamento del convenuto dal parametro imposto da una specifica disposizione normativa, talaltra è sufficiente che dimostri (ed alleghi) circostanze costituenti situazioni, per così dire, sintomatiche della sussistenza della colpa dalle quali il giudice possa dedurre in via inferenziale la colpevolezza del convenuto (si pensi alla dannosità del prodotto, alla pessima qualità del materiale impiegato, all'inesattezza delle informazioni). La dottrina riconduce i suddetti casi entro la categoria della res ipsa loquitur. Occorre, tuttavia, distinguere tra la prova presuntiva della colpa, ovvero la dimostrazione per mezzo di fatti secondari da cui la colpa può essere desunta in via inferenziale, dalla dimostrazione dell'elemento soggettivo attraverso il ricorso alla categoria della res ipsa loquitur, che costituisce un'ipotesi di ragionamento presuntivo attraverso il quale la prova della colpa si fa discendere proprio dal fatto dannoso che si vuole evitare mediante l'imposizione della responsabilità (Monateri, Arnone, Calcagno, 190), il che equivale a dire che dalla prova che un certo danno si è prodotto si desume la presenza di colpa in capo al danneggiante. In tale ultimo caso la peculiarità risiede in ciò, che il ragionamento presuntivo si fonda su un fatto, il danno evento, che costituisce un elemento della fattispecie della responsabilità attraverso l'applicazione di una massima di esperienza, la quale è una regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche o di mera esperienza, comunemente e pacificamente accettate in un determinato ambiente. Affermare che il verificarsi di un determinato danno postuli una specifica deviazione dal parametro diligenziale significa fare uso di una massima di esperienza. In tal caso la massima di esperienza consente di trarre dal fatto noto (il danno evento) il fatto ignoto del pregiudizio della colpa. Eppure, siamo al di fuori del ragionamento presuntivo vero e proprio, attraverso il quale si fa derivare la conoscenza del fatto ignorato dalla conoscenza di altro fatto, secondario, introdotto nel giudizio attraverso la prova ed estraneo alla fattispecie costitutiva dell'illecito. In altre parole in questo caso il fatto ignoto è tratto non da un fatto secondario ma da un altro fatto principale. Il ricorso alla res ipsa loquitur è ricorrente in giurisprudenza. Di particolare interesse è l'impiego giurisprudenziale di tale tecnica probatoria in materia di responsabilità da prodotto difettoso. In verità l'onere probatorio del danneggiato è espressamente delineato dall'art. 4 della direttiva n. 85/374/CEE che, ai fini dell'affermazione della responsabilità del fabbricante, impone al primo di provare il danno, il difetto e la connessione causale tra il difetto ed il danno. Eppure si registrano in giurisprudenza soluzioni ermeneutiche divergenti rispetto tale prescrizione. Secondo un primo orientamento la prova del difetto si può ottenere in via deduttiva attraverso prove logiche a contrario: l'uso normale del prodotto, l'anomala reazione del medesimo e la mancata allegazione, da parte del costruttore, di un'ipotesi alternativa razionale (Trib. Roma, 14 novembre 2003, in Foro it., 2004, I, 1645). Alla stregua di tale impostazione non solo il danneggiato è esonerato dalla prova del difetto, ma al produttore viene attribuita anche la causa ignota. La giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 20985/2007) ha stabilito che nell'ipotesi di responsabilità civile da prodotti difettosi, disciplinata dal d.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, il danneggiato deve provare il danno, il rapporto causale con l'uso del prodotto e che questo uso ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative, tali da evidenziare la mancanza della sicurezza che ci si poteva legittimamente attendere, ai sensi dell'art. 5 del d.P.R. citato, mentre il produttore è tenuto a dimostrare che il difetto non esisteva quando il prodotto è stato messo in circolazione. In altra occasione la Suprema Corte (Cass. n. 14/2010) ha affermato che con riferimento all'art. 5 d.P.R. 224/1988, l'onere probatorio a carico del danneggiato si esaurisce nella dimostrazione di aver subito un danno causalmente connesso con l'uso del prodotto. Secondo altra pronuncia (Cass. n. 25516/2010) la circostanza che un prodotto (cosmetico) abbia arrecato danni alla salute dell'utilizzatore non è di per sé sufficiente per ritenere sussistente la responsabilità del produttore, ai sensi del combinato disposto degli artt. 5 d.P.R. n. 224/1988 e dell'art. 7 della l. n. 713/1986 (applicabili ratione temporis, essendo la prima di tali norme state abrogate dal d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206, e la seconda modificata dall'art. 5 del d.lgs. n. 126/1997); il combinato disposto delle norme appena ricordate pone, infatti, a carico del produttore una presunzione di responsabilità a condizione che il danno risulti arrecato dal prodotto in condizioni di impiego normale, per tale intendendosi quello corrispondente alle caratteristiche del prodotto ed alle istruzioni fornite dal produttore. Il ricorso alla tecnica probatoria dell'evidenza del fatto in relazione all'elemento della colpa non costituisce in astratto una finzione giurisprudenziale, ma, da un lato, risponde ad un principi di efficienza, dall'altro costituisce per il giudice un consentito impiego del ragionamento presuntivo. Condizione indefettibile perché tale tecnica di accertamento non valga a snaturare le fattispecie di responsabilità ex art. 2043 c.c. e a trasformarle in altrettante ipotesi di responsabilità oggettiva è rappresentata dalla rigorosa verifica dell'assolvimento, da parte del danneggiato, dell'onere assertorio. Difatti l'allegazione non può vertere sul danno subito e sul suo collegamento causale con la condotta del convenuto, ma deve avere ad oggetto la specifica carenza che mediante l'ausilio del principio della res ipsa loquitur può essere ascritta al danneggiante a titolo di colpa. Va, infine, evidenziato che la giurisprudenza in relazione a determinate fattispecie ha tipizzato circostanze ricorrenti facendole assurgere a situazioni sintomatiche della colpa. Si allude, in particolare, alla nozione di insidia stradale, figura elaborata dalla giurisprudenza mediante sperimentate tecniche di giudizio in base ad una valutazione di normalità, al fine di meglio distribuire tra le parti l'onere probatorio, secondo un criterio di «semplificazione analitica» della fattispecie generatrice della responsabilità. Se e in quanto il danneggiato provi l'insidia, può e deve essere affermata la responsabilità della pubblica amministrazione, salvo che questa, a sua volta, provi di non aver potuto rimuovere — adottando le misure idonee — detta situazione di pericolo, i cui elementi costitutivi il giudice ha, comunque, il compito di individuare in modo specifico (fra l'altro precisando gli standards di diligenza connessi alla visibilità e prevedibilità, nonché all'evitabilità del pericolo stesso, in relazione all'uso della strada), onde accertare se ricorrano, alla stregua delle peculiarità del caso, le condizioni richieste dall'art. 2043 c.c. L'insidia non è, dunque, né un istituto giuridico, né un elemento di un istituto giuridico, né una situazione di fatto alla quale conseguono sempre e necessariamente determinate conseguenze giuridiche fisse e prestabilite (sul piano probatorio o su altri piani); ma è semplicemente una situazione di fatto che, per la sua oggettiva invisibilità e per la sua conseguente imprevedibilità integra una situazione di pericolo occulto (Cass. n. 10040/2006; Cass. n. 20328/2006) di significativa rilevanza probatoria, che il giudice può considerare come idonea ad integrare una praesumptio hominis di sussistenza del nesso eziologico con l'incidente e di sussistenza della colpa dell'ente o della persona tenuta a vigilare sulla sicurezza del luogo ove l'insidia si è realizzata. L'applicabilità quasi generale di questa presunzione costituisce, tuttavia, un mero dato statistico, con la conseguenza che il giudice può e deve, sempre, anche in presenza di una insidia (o trabocchetto) accertare la sussistenza di tutti gli elementi previsti dall'art. 2043 c.c., non potendo escludersi la possibilità che in qualche caso, nonostante l'insidia, il (colposo o doloso) comportamento del danneggiato o di un terzo concorrano a provocare l'incidente (od eccezionalmente assumano addirittura rilevanza causale esclusiva, nel senso che l'insidia, pur oggettivamente esistente, non ha inciso sul particolare nesso eziologico concernente lo specifico incidente (Cass. n. 390/2008). Con specifico riferimento alla presunzione di colpa stabilita dall'art. 2054, comma 1, c.c., la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che tale disposizione non stabilisce a carico del conducente un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma una responsabilità presunta da cui il medesimo può liberarsi dando la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero dimostrando non l'impossibilità di una condotta diversa o la diligenza massima, bensì di avere osservato, nei limiti della normale diligenza, un comportamento esente da colpa e conforme alle regole del codice della strada, da valutarsi dal giudice con riferimento alle circostanze del caso concreto (Cass. n. 4130/2017). Per quanto concerne, infine, l'onere della prova dell'esimente di cui all'art. 2046 c.c., la giurisprudenza di legittimità ha affermato che grava sul danneggiante l'onere di allegare e provare l'esistenza al momento del fatto illecito dello stato di incapacità di intendere e di volere, posto che l'imputabilità non integra un elemento costitutivo della fattispecie della responsabilità aquiliana, ma una condizione soggettiva esimente della stessa (Cass. n. 16661/2017). 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